Lo ZKM/Center for Art and Media di Karlsruhe diretto da Peter Weibel continua la propria indagine nelle pieghe della contemporaneità attraverso format espositivi transdisciplinari che trovano nella piattaforma teorica e operativa Globale un raccordo di senso più generale: un archivio ricco di elementi funzionali a supportare la lettura delle complesse dinamiche culturali e sociali di oggi.
Reset Modernity!
La mostra al ZKM/Center for Art and Media di Karlsruhe indaga come approcciarsi al nostro tempo minacciato da profondi cambiamenti che stanno trasformando l’essenza stessa dell’ambiente in cui viviamo: clima, perdita di controllo, potere delle immagini, globalità.
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- Marco Petroni
- 13 luglio 2016
- Karlsruhe
Dopo “Global Activism. Art and Conflict in the 21st century”, un viaggio nei profondi mutamenti avvenuti sia nel mondo dell’arte sia nel disastrato universo della dialettica politica, è la volta di “Reset Modernity!” a cura di Bruno Latour, Martin Guinard-Terrin, Christophe Leclercq e Donato Ricci, che costruisce un sistema espositivo integrato e strutturato attraverso diversi media e canali di comunicazione che mettono il fruitore nella condizione di guardare i lavori in mostra da prospettive differenti.
Una scelta dettata dal tema che la mostra indaga: come approcciarsi al nostro tempo minacciato da profondi cambiamenti che stanno trasformando l’essenza stessa dell’ambiente in cui viviamo. I fattori climatici sono una delle prospettive sensibili che i curatori mettono al centro di “Reset Modernity!”, questione che Bruno Latour ha iniziato ad affrontare nel suo saggio cult Nous n’avons jamais été modernes: Essais d'anthropologie symmetrique (Noi non siamo mai stati moderni) del 1991. Una riflessione dal sapore quasi profetico in cui il filosofo e sociologo francese declina l’inadeguatezza di molte categorie di pensiero come modernità e postmodernità aprendo lo sguardo su una realtà ibrida. Natura e cultura s’intrecciano formando un universo di oggetti stratificati che necessitano di uno sguardo collaborativo col quale i saperi dialogano per cogliere aspetti più inclusivi che conducono a un mondo non gerarchizzato ma potenzialmente più orizzontale. Proprio questa sensibilità molteplice e aperta anima l’intero progetto espositivo. Oltre alle opere in mostra, propone un fondamentale libretto d’istruzioni (field book) fornito all’ingresso che fa da specchio ai materiali audiovisivi pubblicati sul sito web del ZKM. Elementi connessi al corposo catalogo curato da Bruno Latour per i tipi di MIT Press, rendendolo imprescindibile strumento per cogliere le innumerevoli suggestioni della mostra.
L’allestimento concentrato al pianoterra dell’ex fabbrica di munizioni convertita in incubatore e diffusore di ricerca artistica e scientifica, richiama alcune atmosfere di Stalker, il film capolavoro di Andrej Tarkovskij con al centro la misteriosa “zona”. Un’analoga dimensione di minacciosa sospensione segna il percorso espositivo punteggiato non da sezioni o ambiti tematici bensì da sei “procedure” indicate come modalità di resettaggio del nostro senso di orientamento nel mondo globale. “In un momento di profonda mutazione ecologica, la bussola comune non offre più molto orientamento. Questo è il motivo per cui è giunto il momento per un reset. Soffermiamoci nel seguire una procedura e la ricerca di sensori che ci consentano di ricalibrare i nostri rivelatori, i nostri strumenti, per sentire di nuovo dove siamo e dove potremmo desiderare di andare. Nessuna garanzia, ovviamente: si tratta di un esperimento”. È con quest’invito scritto sul “field book” che ci si avvicina alla procedura A, Relocalizing the global. Un ricollocamento della nozione di globale che ha come primo snodo di riflessione il film realizzato nel 1977 da Ray e Charles Eames per IBM, Powers of Ten: a film dealing with the relative size of things in the universe and the effect of adding another zero; dove un picnic sulle rive del lago Michigan si trasformava in un viaggio dentro i meandri più nascosti del cosmo fino alla struttura stessa delle molecole che lo compongono. Un’indagine che potremmo considerare tipica dell’atteggiamento modernista ben sintetizzato nello slogan di E. N. Rogers “Dal cucchiaio alla città”.
Questa fiducia di poter controllare ogni possibile declinazione umana è entrata in crisi da tempo. I curatori ce ne propongono un reset attraverso il lavoro di Andrè Jacque e Office for political innovation che rimettono in scena il film degli Eames, dividendolo in più atti e scene. Nella nuova versione gli autori concentrano l’attenzione su eventi economici, politici e sociali che non compaiono nel film originale sottolineando le zone d’ombra della Storia e l’assenza di critica sociale nell’opera. Anche l’installazione video su più monitor di Peter Gallison e Robb Moss Wall of Science si relaziona con gli Eames attraverso la messa in discussione della fede nella scienza introducendo in un laboratorio scientifico alcuni inciampi di imprevedibilità che producono un allargamento della conoscenza e dei risultati. Restituisce un’idea del disorientamento procurato dal concetto di globale la fascinosa installazione di Sarah Sze, Model for a weather vane. Un assemblaggio di vari materiali che rimandano alla perdita e all’impossibilità di trovare un equilibrio, espressa da una livella a bolla fissata fuori asse a degli esili elementi metallici per indicare la precarietà del nostro tempo.
La seconda procedura Without the world or within suggerisce un punto di vista sul mondo da una prospettiva più coinvolgente. Ribalta il concetto di spettatore in attore che agisce consapevole del proprio ruolo operando di volta in volta la scelta se essere dentro o fuori dal mondo. A esplicitare questo reset è il lavoro fotografico Musée du Louvre IV di Thomas Struth del 1989. Il fotografo tedesco ha lavorato sul modo in cui i visitatori si comportano nei musei d’arte. Ci scopriamo noi stessi spettatori guardando alcune persone in piedi di fronte al famoso dipinto di Théodore Géricault, Le Radeau de la Meduse. La cornice dorata del dipinto non è lì solo per focalizzare l’attenzione ma rinvia al nostro modo di guardare il mondo come attraverso il vetro di una finestra. Per abitudine “mettiamo in cornice” tutto ciò che vediamo, come turisti che guardano uno spettacolo. È attraverso i dipinti che abbiamo imparato a riconoscere una soggettività e a prendere le distanze dal mondo esterno – soprattutto quando i dipinti raffigurano catastrofi. Da una prospettiva diversa inquadra il problema della passività dello spettatore anche Jeff Wall con l’opera fotografica Adrian Walker, artist, drawing from a specimen in a laboratory. L’immagine fermata dell’artista davanti al proprio soggetto con la mano staccata dalla tela sembra suggerire la morte di un certo modo di fissare un oggetto. Ci invita a porci in una dimensione interrogativa rispetto al reale abbandonando i sentieri sicuri di un controllo razionale tipico del modernismo.
La procedura C Sharing Responsibility: farewell to the Sublime si appunta sul rapporto che l’uomo ha con eventi naturali imprevedibili come terremoti, tsunami, eruzioni, ecc. “l’addio al Sublime” – che allude alla nozione settecentesca da Burke a Kant – è espressa con intensità da un lavoro di Tacita Dean. È un polittico fotografico, Quatermary, ispirato da un documentario che ha diffuso la falsa notizia di un rischio imminente di eruzione di un vulcano nel Parco di Yellowstone così violenta che avrebbe spazzato via diversi stati americani. La quarta procedura From lands to disputed territories prende come archetipo da indagare la calotta artica. Una terra apparentemente desolata ma che in futuro potrebbe generare interessi diffusi di sfruttamento delle risorse. È estremamente interessante il lavoro del collettivo italiano Folder, Italian Limes. Un’installazione multimediale che si interroga su cosa sia il confine tra due luoghi, soprattutto se questa frontiera cade in un’area alpina che, a causa del surriscaldamento globale del pianeta, si sta sciogliendo velocemente, mettendo a rischio l’intero ecosistema. Un confine mobile che scompagina le certezze cartografiche cambiando il concetto stesso di limite, di confine.
La penultima procedura di resettaggio è Secular at last. Una monumentale videoinstallazione di Jean Michel Frodon e Agnès De Victor Religious films are always political mette insieme frammenti da film a sfondo religioso come Andrej Rublev di Tarkovskij, Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini e Habemus papam di Moretti per invitare lo spettatore a riflettere sul potere delle immagini nel ripensare il mondo. L’ultima procedura Innovation not hype riflette sul tema della trasformazione. È l’eroico Toaster project di Thomas Thwaites a concludere l’esplorazione di questa zona indeterminata ma necessaria di riflessione attorno al nostro tempo da prospettive differenti e transdisciplinari.
© riproduzione riservata
fino al 21 agosto 2016
GLOBALE: Reset Modernity!
ZKM Center for Art and Media
Lorenzstraße 19 Karlsruhe