Il sogno inseguito da artisti e curatori, nelle due mostre alla Fondation Louis Vuitton, è quello di proporre una serie di opere in grado di testimoniare lo straordinario mutamento economico in atto nel paese e del grande balzo del gigante asiatico e della sua scena artistica.
Bentu
Il nuovo allestimento delle collezioni e la mostra tematica “Bentu. Artisti cinesi nella turbolenza delle mutazioni” alla Fondazione Louis Vuitton, sono due mostre distinte, entrambe con una solida impalcatura costruita attorno all’idea di una ridefinizione dell’identità dell’arte contemporanea cinese.
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- Ivo Bonacorsi
- 24 febbraio 2016
- Parigi
La direzione dell’incestuoso rapporto con il capitalismo ma soprattutto il matrimonio con l’estetica concettuale radicalizza e semplifica la produzione oggettuale di questo che si auto-descrive come un frastagliato Eldorado in cui sbocciano formulazioni artistiche, non sempre molto originali ma che si stagliano con vigore mediatico su un orizzonte geopolitico in costante mutamento.
I risultati più evidenti sono la maggiore circolazione di denaro e basterebbe il lavoro degli artisti più giovani e meno conosciuti come Xu Qu con Currency wars per semplificarne gli aspetti, visto che i particolari iconici di banconote di tutto il mondo fluttuano nella loro rigorosa astrazione e sono metafore elementari del punto 0 del potere d’acquisto raggiunto dai collezionisti cinesi, ora che si aggiudicano capolavori dell’arte occidentale sul mercato con cifre da capogiro. C’è anche il contrapporsi di due fastidiose e irrisolte questioni: quella tra la giovanissima arte in crescita esponenziale e la vecchia scuola di dissidenti e fuoriusciti. Una nuova promozione di artisti che evolvono nelle scuole d’arte occidentali e a contatto con agende che li fanno un po’ tutti assomigliare vuoi nell’uso dei nuovi media, vuoi nello scimmiottamento di problematiche tutte interne alle tautologie del post moderno. Persino il rigore di un’artista come Cao Fei, sembra stemperarsi in un lavoro, Stranger, che capovolge una solida reputazione costruita su lavori digitali e video come Live in RMB city di più ampio respiro.
La selezione di artisti internazionalmente identificabili come Ai Weiwei o Yang Fudong sebbene di generazioni e ambiti diversi non avrebbero sicuramente potuto equivalersi, se non in un progetto come quello sotteso alla mostra. Ai Wei Wei il dissidente assoluto è anche alle prese, in città, con le leziose vetrine del Bon Marché costruite in leggerissimo bambù e carta di riso, ma qui per lo stesso gruppo (LVMH) è un solidissimo albero assemblato con i materiali di recupero che lo hanno reso famoso. Yang Fudong geniale regista della sino-estetica Prada vista nei video della collezione primavera estate di qualche anno fa, presenta due lavori ipnotici, veri e propri camei per tecnica e respiro che purtroppo sono risucchiati nella logica fior di loto dell’esposizione incentrata sulle apparenze folkloriche dell’Impero di mezzo. Solo vent’anni orsono, la realtà della politica e le trasformazioni di quel continente non avrebbero generato la melliflua idea allineata in queste sale.
Occhieggia, declinandosi in opere monumentali come quelle di Xu Zhen il confronto con il post-Pop del simulazionismo americano. Il kitsch del repertorio iconografico alla grande tradizione taoista, devia verso la grammatica di un Jeff Koons o quello di Zhang Huan che diviene un edulcorato primo Anselm Kiefer fatto di ceneri e post-ideologia. Forse in fondo in fondo persino questo ribaltamento modaiolo di un’idea tutta godardiana della Cina è da imputare alla leggerezza dell’assunto teorico. Oggi e lo dimostra il successo nella costruzione di questa estetica, si trascende il sociale e si presenta una Cina pura al servizio della logica commerciale, l’apparato museografico è pronto a trasformare in gadget folklorico anche quello che è stato il lavoro difficile degli artisti cinesi che hanno condotto per primi i difficili tentativi di ibridazione con l’occidente e le sue regole di mercato.
Il caso più eclatante è Huang Yong Ping, che sarà il protagonista della prossima edizione di Monumenta al Grand Palais. Il suo scolabottiglie di Duchamp con le cinquanta braccia di Buddha è certo immediatamente intellegibile al grande pubblico ma fa rimpiangere le sue lavatrici con i bucati di giornali quotidiani o di manuali di storia dell’arte occidentale. Ora come si trattasse della riscrittura della grammatica per una grande cultura visiva millenaria non si può esattamente riassumere la ricerca piena di nuove energie appiattendola nella relazione faticosa con la terra natale. Certo molti artisti della prima generazione hanno abbandonato il Paese. Huang Yong Ping è naturalizzato francese e il Bentu (parola cinese che significa madrepàtria) a cui la mostra fa riferimento, si muove in un universo di diversa circolazione di uomini e capitali.
Certo ci sono lavori che non apparendo centrali nella mostra sono imprescindibili come le splendide operazioni di Zhou Tao. Nei suoi due video, One Two Three Four, 2008 e Chick speaks to duck, pig speaks to dog, 2005 la realtà della Cina odierna è vivisezionata in un approccio antropologico che non lascia dubbi sul futuro di quell’area geografica. Le unita di lavoro delle nuove società commerciali e dei nuovi colossi economici intenti nell’esercizio mattutino di parata ricordano non poco le “unità di lavoro” maoiste nelle quali la popolazione cinese era inquadrata fino ad anni recenti. E anche per i disperati tentativi di comunicazione nella notte di tre uomini in un parco cinese che se ne stanno appollaiati sugli alberi andrebbe probabilmente pensata una collocazione diversa. Vicino al totemico albero di Ai Weiwei avremmo ottenuto un insperato effetto di realtà.
Alla Fondazione Louis Vuitton si gioca invece la ricerca di irrealtà asiatica, perseguita da un lifting curatoriale imbarazzante. Ciò che potrebbe sembrare la produzione a base di tecniche ancestrali buone per un noioso museo di arte orientale diventa alla fine il lavoro più politico ed emerge prepotentemente, unico nella battaglia contro l’ancestrale. Ecco riaffiorare allora con la delicatezza dei rotoli calligrafici su seta di Qiu Zhijie, i cui dettagli di From Huaxia to China ripristinano un ordine da deriva situazionista, e in questo ambiente popolato di colossi e kolossal di una Cina anabolizzata si ristabilisce una corretta relazione con l’Impero celeste e la sua arte.
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