“Il cosmonauta, dopo tanto spazio, viene deposto in un buco della terra”. Bisogna dire che in questo pensiero formulato molti anni fa da Fausto Melotti c’è tutta una confusione osmotica di linfe – l’errante e vuoto spazio sidereo della cupola celeste da cui non si può cavare nessuna idea di dimensione o distanza, e quello sprofondato, affollato di vermi e zampe e stretto tra orde di talpe e radici delle altrettanto buie profondità terrestri – che in fondo rende bene la singolare natura di un artista votato sì all’astrazione e alla geometria, all’impulso riduttivo, al rigore contrappuntistico, ma come scosso, di tanto in tanto, da un intermittente, forse atavico, umanissimo sentimento di adesione alle cose del mondo, alle leggi nascoste nel fondo di ciò che esiste.
Il mago Melotti
Curata da Eva Fabbris e Cristiano Raimondi, la mostra a Villa Paloma gravita attorno all’affinità elettiva che per un felice periodo stemperò il genio di Fausto Melotti in quello del visionario Gio Ponti.
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- Ilaria Bombelli
- 27 ottobre 2015
- Montecarlo, Principato di Monaco
Se non si può infatti non rintracciare in tutta l’arte di Fausto Melotti una tensione costante verso “i segni alti”, per dirla con Italo Calvino, che su di lui scrisse pagine illuminanti, verso l’intelletto più che i sensi (si ricordino come in un flash le mute Sculture, così definite “astratte”, degli anni Trenta, variazioni sul tema in ordine progressivo, tra cui le diciotto esposte nel 1935 nella prima personale dell’artista alla Galleria Il Milione di Milano), è pur vero che nulla nelle sue opere, ci ha fatto sapere, “è consegnato a un equilibrio indifferente, come una palla su un piano perfettamente orizzontale. La palla vive quando rotola in basso o è lanciata in alto”. Come dire che, se la metrica è rigorosa, il verso è libero. I vuoti contano come i pieni. E lo spazio – febbrile, concitato, sciolto da ogni certezza – si dilata e si contrae, in cerca di un adattamento.
L’opera di Fausto Melotti (nato nel giugno del 1901 nell’asburgica e irredentista Rovereto di Fortunato Depero e del cugino Carlo Belli; musicista, figlio di un macellaio e con una laurea in ingegneria elettrotecnica; morto a Milano, in un attimo di giugno, nel 1986) ha in sé qualcosa del frullo d’ali d’una falena, di un’onda che si rimbocca di bianco, di un filo di garza, della luna del pomeriggio. Un che di rosazzurro – lieve, palpitante, impalpabile. Lontanissime, come assorte in un luminescente chiaror d’alba, e sottili, sottilissime, le sue sculture “sui trampoli” – forme aperte d’elaborata compostezza fluttuanti nell’empireo – faticosamente sorreggono il peso di uno sguardo che non sia quello di un ragno, o di una stella.
“Melotti è un artista sensibile e silenzioso”, scriveva Lisa Ponti su Domus nel 1948 in un articolo intitolato “Il mago Melotti”. “Chi lo va a trovare nel suo studio le prime volte rimane sconcertato dal suo breve riso imbarazzato, in mezzo a tante strane meraviglie allineate sulle assi. […] So di architetti che hanno trovato le sue tazzine ‘non architettoniche’: è un modo di ribellarsi al fascino delle sue quasi inutili bellezze. So di altri architetti giovani che da un anno rinunciano a raccogliere lo zucchero che rimane sul fondo delle sue tazzine da caffè, lunghe e strette come cilindri, ma che non rinuncerebbero a usarle per nulla al mondo. Melotti ride delle cose che fa: dei suoi scomparti pieni di eserciti di angelini, di famiglie di ‘animali sbagliati’, di chicchi di collane: ne prende qualcuno e lo mostra, rigirandolo e sorridendo, come se un entomologo facendoci vedere alla lente una farfalla ne ridesse un po’. Sono cose che faccio sottobanco, naturalmente, dice: si sa che non è scultura”.
Nel dopoguerra saranno proprio Lisa Ponti e il padre Gio (che nel frattempo era tornato alla direzione della rivista che aveva fondato nel 1928) a scostare con le dita, e proprio dalle pagine di Domus (vedi: Domus 392/1962), la patina di silenzio che come una ragnatela s’era depositata sull’opera dell’artista, risollevandola finché – a partire dalla fine degli anni Sessanta, diciamo dalla mostra alla Galleria Toninelli di Milano del 1967 – non spiccò definitivamente il volo. Molti furono i servizi, con foto di Ugo Mulas, Giorgio Casali e Arno Hammacher, dedicati a Melotti o scritti di suo pugno, fra cui quella meravigliosa ammissione d’intenti, sorta di manifesto programmatico, che è “L’incertezza” (Domus 400, marzo 1963; ripubblicato su Domus 993, luglio/agosto 2015), in cui si dichiara senza troppi complimenti l’insofferenza verso certe tendenze classificatorie proprie dell’allora embrionale sistema dell’arte. “Se Giotto rinascesse”, scriverà in seguito l’artista, “il mercato lo condannerebbe a ripetere continuamente il suo O”.
Attorno all’affinità elettiva che per un felice periodo stemperò il genio di Melotti in quello del visionario Ponti e nel piombo fuso dei caratteri tipografici di Domus (grosso modo dal 1948 al 1968), gravita una mostra di recente inaugurazione (visitabile fino al prossimo 17 gennaio), nata dallo sforzo congiunto di Marie-Claude Beaud, direttrice del Nouveau Musée National de Monaco, i curatori Eva Fabbris e Cristiano Raimondi, lo Studio Baukuh e Valter Scelsi (progettisti dell’allestimento), la Fondazione Fausto Melotti e l’Editoriale Domus, che giusto in una delle due sedi del NMNM – nell’elegante Villa Paloma affacciata sul mare della Côte d’Azur – trova la sua naturale collocazione.
Un po’ inaspettatamente, è tutta la retorica e la magniloquenza dell’allegoria ad aprire il varco all’esposizione, con le copie (gli originali sono andati distrutti) dei tre gessi realizzati dall’artista per la settima edizione della Triennale di Milano (1940), raffiguranti La pittura, L’architettura e La decorazione. Voltato l’angolo, a lusingare lo sguardo è una figura – il pendolo – che ha goduto di più d’una attenzione da parte di Melotti, e che qui prende consistenza nelle levitanti sfere di ferro, concentrate e dense, di Scultura A (I Pendoli) del 1968. “Un pendolo”, scriveva Calvino, “non schiavo della ciondolante gravitazione terrestre ma disponibile per capovolte oscillazioni da diapason, batacchio d’altre campane, gong solare”.
Tutt’attorno, come orientate da raggi invisibili, si dispongono alcune tra le più belle sculture in ottone della metà degli anni Sessanta – aeree, sospese, e pure traboccanti d’immagini liquorose. Siamo nelle zone magiche del Mago Melotti: qua Il Circo, là La barca e il Metrò natalizio, laggiù La Pioggia. A un tiro di sasso, le circonferenze ondulatorie della scultura in acciaio Ellissi (1964) si riflettono, oltre che nel grande specchio messo lì a svelarne il rovescio (lo specchio, con tutta la ricchezza delle sue rotte, è il dispositivo scenico scelto dagli allestitori per frugare dentro le opere e farne da cassa di risonanza), nella gelatina d’argento della fotografia dell’opera realizzata qualche anno dopo da Ugo Mulas: un contrappunto di piani più o meno inclinati – bi e tridimensionali – che echeggia lungo tutto il percorso espositivo.
Ogni tappa della mostra è contrassegnata da pagine di rara poesia pazientemente dissotterrate dai curatori dagli archivi di Domus, che si collegano e rispondono alle opere esposte. S’incontra per via l’infornata di ceramiche policrome che, a partire dalla fine degli anni Quaranta, iniziarono a uscire dallo studio milanese di via Leopardi 26, per entrare, di lì a poco, nelle pagine illustrate della rivista, fra cui Lettera a Fontana del 1944 (dove Fontana è naturalmente l’amico Lucio, conosciuto nella classe di Adolfo Wildt all’Accademia di Brera) e La Follia (esposta nel 1948 alla Biennale di Venezia). Sarà proprio l’attività di ceramista a riservare a Melotti quegli allori che inizialmente l’arte gli negava.
Seguitano le sculture dall’esatta geometria ricavate da una certa misura musicale (Preludio I e II, 1961; Tema e variazioni, 1969; Contrappunto III, 1970), qui esposte assieme alle teche che ne custodiscono le riproduzioni (numeri di Domus pressoché introvabili). E poi, salendo su su fino al terzo piano, i bassorilievi in argilla e ceramica dipinta dall’eco lontanamente preistorica (tutti Senza titolo, realizzati fra il 1946 e il 1962), e alcuni esemplari di quel capitolo a sé nell’eclettica produzione dell’artista che sono i Teatrini in terracotta dipinta – scatole sceniche abitate da figurine magre e alienate, su cu aleggiano vaghissime reminiscenze, ricordi.
Marinata in un tempo senza orologi e come tarmata di botole e uscite segrete che si scoperchiano all’improvviso aprendo inaspettati spifferi di meraviglia, la mostra di Fausto Melotti a Villa Paloma s’ammanta, anzi sprofonda in una fitta vegetazione di segni carichi d’incertezza, naturalmente privi di significato e in grado di assumere tutti i significati che si vuole attribuirgli. Segni alti, alati. Spire d’argento, note d’una partitura, code d’aquilone. Lontani e familiari al tempo stesso. Come li descrisse Paolo Fossati in quel fondamentale commento sull’opera di Melotti che è Lo spazio inquieto, “segni di un altrove di cui qui è la spoglia”.
© riproduzione riservata
fino al 17 gennaio 2016
Fausto Melotti
NMNM - Villa Paloma
56 boulevard du Jardin Exotique, Monaco
In collaborazione con: Fondazione Fausto Melotti
Con la partecipazione di: Domus and Archivio Ugo Mulas
Curatori: Eva Fabbris and Cristiano Raimondi
Progetto di allestimento: Baukuh e Valter Scelsi