In una mostra che si pone come piattaforma per artisti sensibili alla realtà e come punto d’intersezione tra arte e politica, Harun Farocki non poteva mancare. Filmmaker, ma anche scrittore, curatore, visiting professor presso molte università, direttore, tra il 1974 e il 1984, della rivista Filmkritik, Farocki era nato in Germania nel 1944, cresciuto tra India e Pakistan, e poi rientrato in Germania Ovest.
Harun Farocki
Mancato improvvisamente a fine luglio di un anno fa, Harun Farocki è stato al centro di numerosi omaggi, mentre la sua rilevante presenza alla Biennale di Venezia sancisce il valore decisivo della sua opera e l’importanza del suo rigore e della sua critica lucida e radicale.
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- Gabi Scardi
- 30 luglio 2015
- Venezia
Influenzato da Bertolt Brecht e da Godard, il suo sguardo preciso, sotteso da un intento etico, si appuntava sul rapporto tra individuo, società, politica e immagini in movimento, e sulle forze che ci formano e che ci condizionano, e sulla violenza che ci circonda: quella diretta, manifesta e brutale che conosciamo e riconosciamo, e quella meno esplicita, ma pervasiva e quindi insidiosa, che passa attraverso i media e la tecnologia, e che si manifesta, tra l’altro, nei modelli materiali e mentali e nella rete dei rapporti autoritari o nelle condizioni di lavoro a cui l’individuo deve sottostare quotidianamente.
La sua opera ha avuto notevole influenza sul cinema politico: secondo una dichiarazione di Kowdo Eshun, pubblicata sul sito dell’artista poco dopo la sua morte, “generazioni di artisti teorici e critici hanno preso i suoi film come punti di riferimento, compresi Inextinguishable Fire (1969) e Images of the World and the Inscription of War (1988) o installazioni come Deep Play (2007). Il suo impatto e la sua influenza sulla cultura, dentro e fuori la Germania, rimane indiscusso”.
Non è dunque un caso che, a un anno dalla sua scomparsa, Okwui Enwezor, direttore artistico della 56a Biennale di Venezia, gli dedichi ampio spazio nell’ambito della sua “All the World’s Futures”. Proprio nel cuore della mostra, al centro dell’Arsenale, si trovano sia le copie della rivista Filmkritik, sia uno degli ultimi progetti dell’artista, Labour in a Single Shot attivato insieme ad Antje Ehmann nell’ambito di una serie di workshop realizzatisi a partire dal 2011; e inoltre sono visibili anche 83 dei suoi film.
Labour in a Single Shot vede coinvolti numerosi partecipanti, invitati a cogliere le nuove forme di lavoro attraverso la realizzazione di video lunghi al massimo due minuti, riguardanti una determinata attività lavorativa e consistenti in sequenze uniche, senza possibilità di tagli o di montaggio. Per quanto riguarda la filmografia, invece, si tratta della quasi totalità delle opere realizzate dall’artista tra il 1966 e il 2014, ora restaurate e raccolte nell’Atlas of Harun Farocki’s Filmography. Qui sono presentate in ordine cronologico, su schermi separati.
Sistematico, sintetico e rigoroso, Farocki ha sempre lavorato per smantellare la retorica dominante e sottrarre i fatti a una frammentazione che, deliberatamente, ne impedisce la corretta visione. Attraverso montaggi che integrano immagini di origine diversa – girate dall’artista o preesistenti, assunte dai mass media, dai dispositivi di sorveglianza, dalla propaganda politica, ha affrontato temi sintomatici quali il Vietnam negli anni Settanta, Auschwitz negli anni Ottanta, le tecnologie di sorveglianza e le bombe intelligenti negli anni Novanta, le dittature – straordinario il film sul crollo del regime rumeno di Ceausescu – le prigioni di regime, gli shopping center e i centri di addestramento per i piloti di droni oggi. Con tono forense Farocki, nei propri film, ricontestualizza fatti, ricostruisce nessi, mostra soprattutto ciò che normalmente non si vede; mette in campo gli esiti di ricerche indiziarie; senza per questo rinunciare a costruire potenti metafore.
La consapevolezza che l’immagine ha il perverso potere di rendere persino la violenza “bella” è all’origine della sua critica radicale del cinema stesso, letto come un dispositivo nato per creare immagini visibili, ma opaco nelle sue logiche e nei suoi meccanismi. Al fine di far emergere i codici nascosti tra le pieghe dell’immagine, nelle sue opere, che coniugano modalità attinte alle tecniche documentarie con elementi di fiction, Farocki opta sempre per la chiarezza e per un’inflessibile asciuttezza formale.
In Inextinguishable Fire, del 1968-1969, per esempio, l’artista ci pone a confronto con una secca constatazione: "When napalm is burning, it is too late to extinguish it. You have to fight napalm where it is produced: in the factories." E una fabbrica viene nominata: si chiama Dow Chemical, si trova nel Midland, Michigan. L’azienda punta sulla razionalizzazione tecnologica, su un avanzamento scientifico fatto cieco nelle finalità. Il lavoro al suo interno si basa su una parcellizzazione estrema; così si arriva ad obnubilare, nei lavoratori stessi, la consapevolezza soggettiva del suo contenuto; e l’oggetto in questione, il napalm, potrà essere prodotto secondo formule sempre più letali senza che si levi resistenza alcuna. Paradossalmente, ci dice Farocki, non solo la distanza, ma anche la vicinanza estrema può rendere la violenza intangibile; con la nostra muta complicità. La relazione tra tecnologia, politica e violenza è anche il fulcro della più recente serie di video, Serious Games. In questo caso al centro sono gli operatori di droni al lavoro nelle loro postazioni. L’utilizzo di droni ha modificato i principi della politica, l’esperienza della guerra e del combattimento, e il nostro stesso rapporto con il contesto. I videogiochi, le animazioni, il computer, i linguaggi di programmazione – creati su commissione dei Ministeri della Difesa – l’impatto psicologico di una guerra che si combatte con nemici lontani migliaia di chilometri, il senso di una realtà instabile in cui i confini tra combattimento, gioco, finzione non sono più chiari; tutta la complessità etica delle guerre di oggi, caratterizzate da nuove, estreme forme di asimmetria emerge in queste opere. Grazie alle tecnologie digitali il male si fa “a distanza” e, parafrasando Hannah Arendt, la sua banalità è anche più lampante.
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