È difficile parlare – e scrivere – dell’arcipelago delle Lofoten senza fare abbondante uso di superlativi.
Lofoten Art Festival
All’interno del Circolo polare artico, l’ultima edizione del Festival internazionale d’arte delle Lofoten si è sviluppata intorno al concetto di collage, ed è stata ospitata in scenari non istituzionali: una biblioteca pubblica, un centro commerciale decaduto e un piccolo museo bellico.
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- Filipa Ramos
- 03 ottobre 2013
- Lofoten
Situate all’interno del Circolo polare artico, tra il 68° e il 69° parallelo, sulla costa nord-occidentale della Norvegia, le Lofoten beneficiano di un clima straordinariamente mite e di temperature medie che non scendono mai sotto i -3°C: un privilegio per una collocazione così estrema.
È difficile accennare a questo territorio senza menzionarne le particolarità geografiche, ed è anche complicato evitare ogni riferimento al suo paesaggio mozzafiato, sconvolgente, straordinario (oddìo, eccoli, i superlativi…) che, a dispetto di ogni tentativo, rimane distante da qualunque possibile approssimazione verbale.
In questa scenografia decisamente particolare si svolge il LIAF (Lofoten International Art Festival, il Festival internazionale d’arte delle Lofoten), dedicato alla promozione, agli incarichi e all’esposizione delle manifestazioni dell’arte contemporanea.
Il compito del LIAF è complesso, perché esiste un delicato equilibrio tra certi fattori alternativi che si collocano ai capi opposti dello stesso segmento: per i residenti la questione è affrontare l’arrivo di presenze estranee non richieste, mentre i visitatori non residenti si trovano a diretto contatto con un contesto affascinante, che di per sé solo provoca emozioni e riflessioni.
È quindi curioso che il progetto di curatela di questa edizione del LIAF si sviluppi intorno al concetto di collage, perché la parola allude a una composizione di oggetti collocati ad arte su uno sfondo preesistente: in queste circostanze un’analisi dei problemi del modo in cui le pratiche curatoriali si compongono con le realtà spaziali e di contesto. Con il titolo Ma che cos’è che rende l’oggi così familiare, così scomodo? il progetto parafrasa il celebre collage proto-Pop di Richard Hamilton Ma che cos’è che rende le case di oggi così diverse, così affascinanti?, adeguandolo alla condizione contemporanea di sospensione, di disagio e di rischio.
La scelta solleva alcune domande: per esempio come può un collage essere il punto di partenza di un progetto espositivo? Ovvero che cosa significa costruire una mostra come si costruisce un collage? Assume una forma antagonistica, data la sovrapposizione di forze opposte? Esprime l’intenzione di aggiungere una varietà di elementi che oscurino lo sfondo preesistente? Oppure considera il fondo come una struttura di sostegno che tiene in posizione ciò che vi viene applicato? A quanto pare, è nei concetti di adeguatezza e di contrasto che i curatori del LIAF 2013, Bassam El Baroni, Eva González-Sancho e Anne Szefer Karlsen, hanno trovato delle risposte al titolo che hanno concepito, selezionando un gruppetto di scenari non istituzionali per collocare opere e progetti.
Alcuni interventi hanno forzato l’identità del luogo che li ospitava, costringendolo a diventare qualcos’altro. È stato il caso della casa di Per Pedersen a Kabelvåg. Questo ambiente domestico ha ospitato alcune tra le proposte più curiose del festival. La casa non è diventata un’abitazione né un luogo d’esposizione ma un luogo domestico distorto. In esso tre opere fatte di immagini in movimento erano particolarmente interessanti nel loro articolare passato e presente, intimità e spiazzamento: il video Mahmoud Khaled A Memorial to Failure (“Monumento al fallimento”, 2013), in cui vedute di due città riprese da una funivia sono accostate a frammenti di discorso, in inglese, di Franco Berardi “Bifo” sul tema del fallimento, della rivoluzione e del cambiamento sociale; Untitled (“Senza titolo”, 2013) di Laida Lertxundi, nuovo film in formato 16 millimetri girato alle Lofoten che articola una ricca colonna sonora con scene di intimità familiare; e Untitled (Structures) (“Senza titolo. Strutture”, 2012), di Leslie Hewitt in collaborazione con Bradford Young, installazione video bicanale che presenta una serie di piacevoli immagini in lenta trasformazione di luoghi dell’epoca dei diritti civili.
Nella città di Svolvær, una biblioteca pubblica, un centro commerciale decaduto, un piccolo museo bellico, un albergo e un cinematografo hanno ospitato una serie di interventi che, in certi casi, mettevano in luce la loro identità e la loro natura. L’opera tessile di Ann Böttcher Transit Portal (“Portale di passaggio”, 2013), perfettamente in tema con il caos dei reperti del museo bellico, ha presentato un’elaborazione secondaria dei suoi contenuti e dei suoi richiami al nazismo. Analogamente i minuscoli ritratti d’alberi di Böttcher – collocati nella Biblioteca di Vågan – alludevano allegoricamente alla presenza a Svolvær della Gestapo, istituendo una corrispondenza tra cultura e natura.
Ancora nella biblioteca, IHT 20110831-20130831 di Sven Augustijnen (2013) consisteva in un ristampa dell’International Herald Tribune. Ottenuto grazie alla ricombinazione di notizie pubblicate in momenti diversi, generava movimenti in avanti e all’indietro nel tempo, creando una sensazione di sospensione assoluta. Altre opere, come l’omaggio a Clarice Lispector di Lisa Tan al Thom Hotel; la collezione di immagini di individui disperati di David Horvitz, presentata in forma ripetitiva e adeguata a diversi discorsi sulla depressione e l’angoscia nella casa di Per Pedersen, o il film di Badi Abidi sui paradossi della geopolitica al Filmteater, analizzavano ulteriormente la dialettica del luogo e dello spazio, dell’esperienza e della percezione umane, che si scontravano tra loro provocando interesse e sospensione, come se qualcosa fosse sul punto di esplodere ma fosse trattenuto e bloccato a tempo. È forse questa condizione di impasse a rendere l’oggi tanto familiare e tanto scomodo?