Bianco perlaceo, rosa intenso, magenta; arancio tramonto, lilla tenue, viola e poi giallo canarino; infine grigio alba.
James Turrell: Aten Reign
James Turrell popola l’interno del Guggenheim di New York con nubi di tutti i colori dello spettro, introducendo i visitatori in un prisma ambientale racchiuso nella perlacea conchiglia di Wright.
View Article details
- Hannah Gregory
- 03 luglio 2013
- New York
È una sola delle fasi cromatiche di Aten Reign (2013), l’installazione di James Turrell che invade il Guggenheim di New York diffondendo lussureggianti lame di luce in ellissi concentriche nella rotonda del museo. Per lo più la transizione tra le tonalità appare costante, cosicché il bianco tende a passare al rosa; ma talvolta è sorprendente, tanto che il verde improvvisamente non è più verde ma azzurro. I nomi dei colori non rendono giustizia alle sfumature reali.
“Certe volte mi chiedono qual è il colore che preferisco”, spiega Turrell all’inaugurazione della mostra, che non a caso coincide con il solstizio d’estate, il giorno dell’anno in cui la luce dura più a lungo. “Be’, qui ci sono tutti. Occorrono tutti, e tutti insieme danno il bianco.” La sede del Guggenheim di Frank Lloyd Wright è caratterizzata dal bianco e dalle linee curve: un tunnel spaziale che spicca tra i rigidi rettangoli e i parallelepipedi che lo circondano nell’Upper East Side. Oggi Turrell ne popola l’interno con nubi di tutti i colori dello spettro, e i visitatori entrano in un prisma ambientale racchiuso nella perlacea conchiglia di Wright. La mostra fa parte di una tripletta insieme con due importanti mostre al LACMA e al Museum of Fine Arts di Houston: l’America dà dignità di classico all’artista di punta del movimento Light and Space, nato in California negli anni Sessanta.
La forma cilindrica dell’edificio e il suo lucernario a cupola sono da tempo l’ispirazione degli Skyspace di Turrell, in particolare la sua ricerca dall’aereo durata sette mesi per il cratere Roden, oggi quasi terminato, nel bel mezzo del deserto dell’Arizona. Turrell ammette che, se avesse potuto eliminare il tetto del Guggenheim lo avrebbe fatto ma, stando così le cose, ha realizzato una Skylight Space che prende il nome da un dio solare della mitologia egizia. Aten Reign (“Il regno di Aton”) ricrea artificialmente la potenza dispensatrice di luce della nostra stella principale, permettendo alla luce naturale di infiltrarsi nella scena. L’apertura superiore collega il bozzolo di luce con il cielo che sta oltre, portando i cieli, spera l’artista, più vicino al livello umano, che non siano ‘lassù’ ma qui.
Il dialogo tra esterno e interno, tra quel che può entrare in un interno ospitale e quel che rimane nella sfera della natura, è al centro dell’interesse di Turrell. La sua opera sembra decisamente a proprio agio più quando si espone agli elementi esterni che nei nitidi ambienti istituzionali. E tuttavia l’insieme della sua visione (che richiede modifiche della tinta delle pareti e l’imposizione di nuovi elementi architettonici, tra cui un tunnel appositamente costruito che conduce i visitatori nell’atrio) richiede un preciso grado di controllo. Le progressive variazioni del giorno e della notte sono destinate ad alterare gli effetti visivi: durante la mia visita un trionfale esterno dal cielo terso, il buio esterno ne sottolineerà la saturazione in tonalità più decise.
Certe sfumature sono così intense da essere volutamente sintetiche, benché Turrell non ami distinguere tra le categorie del naturale e dell’artificiale, preferendo riferirsi semplicemente alla “nostra luce” e alla “luce esterna”. Sono luci vibranti come l’orizzonte di Shanghai o come la psichedelica immagine di Tokyo trattata al computer di Enter the Void di Gaspar Noé. Più sottili effetti di bianco, grigio e giallo chiaro emulano la luce notturna della luna piena o i nebulosi raggi del mattino. Questi momenti in cui la luce è sull’orlo dell’oscurità sono i più commoventi, in coerenza con la convinzione dell’artista che l’ambiente crepuscolare faccia aprire la pupilla finché la luce non arrivi a “toccare” l’occhio.
Questo sfumato percettivo è qui meno pronunciato che in altre opere di Turrell, come nella selezione di opere precedenti esposta ai piani superiori del museo. Mentre la prospettiva della rotonda viene alterata dall’estatico involucro di Aten Reign, con le rampe concentriche del Guggenheim ora chiuse e radicalmente sgombere da ogni altra opera, il gioco dell’installazione con l’altezza dello spazio forse accresce l’effetto. Se si guarda verso l’alto dalle panche inclinate collocate sul pavimento intorno all’atrio, la gradazione cromatica crea lente variazioni percettive tra i cerchi piani e la profondità del cono. Ma la visibile presenza di un sottile velo, teso per assecondare la tecnica dell’installazione, spezza la veduta verso l’alto. L’obiettivo della “sospensione dei confini” di Turrell in questo senso non viene completamente raggiunto. Sebbene non percettivamente allucinatorio come alcune delle opere precedenti di Turrell, Aten Reign gioca sui possibili effetti psicologici del colore, dove il giallo è edificante, l’azzurro quieto e il rosso eccitante, come già, da romantico, intuì Goethe. Lo stato mentale più probabile qui è simile a quando si sta al sole o si scopre l’esplosione di una stella: un calore intimo o un breve soprassalto carico di endorfine. I numerosi toni di rosa aranciato del ciclo cromatico dell’installazione ricordano i tramonti sublimi che tanto affascinavano il Faust di Goethe: “E ora che la dea del sole scompare alla vista, una nuova cura mi opprime la mente: ho smesso di abbeverarmi alla sua luce eterna, con il giorno di fronte a me e la notte alle spalle”. Ancora una volta sono le fasi di transizione del sole che sorge o che cala a essere le più vitali, così come il momento dell’ingresso “nel regno di Aton” può diventare per il visitatore la metamorfosi più memorabile.
In contrasto con queste aspirazioni psichedeliche, quindi, le opere storiche delle sale superiori sono lucidamente monocrome. La prima, Ronin (1968), che si trova al secondo piano del museo, presenta uno spigolo verticale in mezzo all’ombra, l’attrazione di un piano luminoso che invita alla calma contemplativa. È ciò che Turrell definisce “costruzione di spazio superficiale”: da lontano appare come una striscia di luce solida, ma avvicinandosi svela una rottura della struttura architettonica. I semplici espedienti proiettivi della percezione proseguono con l’apparente fisicità del cubo galleggiante di Afrum I e il rettangolo radiante di Prado (1967), entrambi esempi delle prime sperimentazioni di Turrell con la luce come elemento fisico: immobilizzare e distillare qualcosa che di solito trascorre.
Iltar (1976) induce l’osservatore a chiedersi che cosa sta vedendo, una mise en abîme dello sguardo per cui l’opera di Turrell è famosa. Pare che a essere proiettata sia una tenebra profonda, non una luce: un rettangolo nero che si libra su una parete fiocamente luminosa. Ma, come si suol dire, “fa’ luce su una questione oscura” e l’incantesimo si rompe (scatta un segnale d’allarme): stiamo guardando la fessura di un muro che incornicia il vuoto oscuro dietro di esso. Iltar dà corpo a una domanda ottica, perfino esistenziale: una distribuzione dello spazio che non solo inganna i sensi ma ci mette di fronte al carattere ellittico della visione.
C’è poi un’aspettativa intorno all’opera di Turrell che potrebbe contemporaneamente essere spiazzante e gradevole. Al Whitney Museum of Modern Art nel 1980 – l’ultima grande personale dell’artista a New York – c’era chi era talmente sopraffatto da cadere a terra. Nel 2013 l’attesa di visioni alternative può superare la realtà della mostra: “Ho visto delle aureole intorno alla testa delle persone”, afferma una donna che vuol vivere l’arte come un fatto trascendentale. Si è verificata una certa qual sacralizzazione dello spazio e dell’artista, che traccia una linea ideale dalle sale d’assemblea dei Quaccheri della sua gioventù al cosiddetto “tempio dello spirito” del Guggenheim. Ma Turrell rimane il pioniere portabandiera della luce in quanto materiale, e quindi dedica particolare attenzione ai parametri spaziali dell’opera. Se finora abbiamo sperimentato una sovraesposizione agli effetti luminosi nell’arte, ci vorrà un po’ prima di acquistare sensibilità nei confronti dello splendore di Aten Reign.