Nel testo di presentazione della nuova mostra della Hayward Gallery dedicata alla luce c'è un'affermazione che pare poco più di un puro luogo comune: "La vista è il meno affidabile dei sensi". Ma ho da poco riletto An Outline of Philosophy di Bertrand Russell, in cui il filosofo sostiene la posizione opposta; in realtà molte delle elaborazioni che hanno condotto a un avanzamento del sapere nella fisica moderna sono state innanzitutto il risultato di idee collegate a un luogo: "In realtà, se si deve dar fede alla fisica moderna, la vista, usata con prudenza, ci permette una conoscenza degli oggetti più raffinata di quanto non faccia il tatto. Il tatto, al paragone della vista, è approssimativo e grossolano. Siamo in grado di fotografare il percorso di un singolo elettrone. Percepiamo i colori che indicano i cambiamenti che hanno luogo nell'atomo. Possiamo vedere deboli stelle anche quando l'energia che ci giunge da esse è inconcepibilmente minuta. La vista può ingannare più del tatto gli incauti, ma per un'attenta conoscenza scientifica è incomparabilmente superiore a qualunque altro senso."
Naturalmente – in tema di mostre d'arte aperte al pubblico e a parte che Russell parlava di fisica e non d'arte: dopo tutto la luce è luce, si tratti di arte o di fotoni – il fatto curioso di questo dibattito sui rispettivi meriti della vista e del tatto è che nelle mostre d'arte spesso non è permesso toccare nulla e, nelle deduzioni come nelle interpretazioni, bisogna basarsi esclusivamente sulla vista.
Light Show
Alla Hayward Gallery, 22 artisti – da James Turrell a Katie Paterson – esplorano il modo in cui la luce artificiale può essere usata per creare un senso di spazialità scultorea, giocando sulla reazione percettiva umana.
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- Crystal Bennes
- 04 marzo 2013
- Londra
Ma tutto ciò non fa differenza in "Light Show", mostra che presenta 22 artisti, anche se è interessante notare che in maggioranza sono nati tra il 1923 e il 1968, solo tre sono nati negli anni Settanta e uno solo negli anni Ottanta. "Light Show" non vuole necessariamente essere una celebrazione dei mostri sacri dell'arte della luce, benché tutti siano correttamente presenti con opere di Dan Flavin, James Turrell, Anthony McCall e Carlos Cruz-Diez. La presenza di artisti più giovani come Katie Paterson e Conrad Shawcross, così come l'esclusione di molti altri artisti contemporanei che si sono occupati della luce, si può di fatto spiegare grazie alla guida della mostra, la quale chiarisce come le opere siano state selezionate per la loro analisi del modo in cui la luce artificiale può essere usata per creare un senso di spazialità scultorea che gioca sulla reazione percettiva umana.
Valutando la mostra in sé e per sé, le opere più godibili, se non necessariamente quelle più intellettualmente stimolanti, sono senz'altro quelle che creano o definiscono un senso dello spazio e poi usano varie tecniche di illusione per giocare con lo spazio creato dalla luce. Turrell è maestro in questo campo, nel suo distorcere la capacità del cervello di percepire correttamente lo spazio creato grazie al modo in cui la luce viene distribuita. Il classico espediente di Turrell consiste nell'usare la prospettiva per far pensare al cervello che gli occhi stiano vedendo uno spazio piano, come una lavagna luminosa appesa alla parete. Solo se si conosce il trucco in anticipo, o se si infila il braccio nell'apertura, si capisce che la lavagna luminosa non è tale, ma è un foro nella parete saturo di luce intensa, che crea lo spazio. In mostra Wedgeworks, opera giovanile realizzata nel 1974, usa la luce per dividere analogamente lo spazio in una serie di forme a cuneo. Sembrano solide, come schermi appesi tra pareti altrettanto stabili, ma se si attraversa la luce (benché i responsabili della galleria, se lo si fa, aggrottino le sopracciglia, perché così si rovina l'illusione) e il 'trucco' è svelato. Wedgeworks ha il suo peso – e ha all'interno di "Light Show" il posto di un'opera relativamente valida tra una quantità di opere minori – ma non mostra nemmeno la metà della maestria di certe opere più recenti di Turrell, in particolare di Dhatu, esposta nel 2010 alla galleria londinese Gagosian.
"Light Show" non vuole necessariamente essere una celebrazione dei mostri sacri dell'arte della luce, benché tutti siano correttamente presenti.
Analogamente Anthony McCall ha lavorato sull'idea che la luce possieda la capacità di generare lo spazio, e l'ha usata con risultati straordinari. Un programma informatico d'animazione, con un disegno al tratto che assume di volta in volta varie forme, proietta nello spazio esterno la luce, rendendola quasi solida. L'opera è affascinante non solo per la brillantezza della luce proiettata o per il dinamismo delle linee animate, ma perché la foschia atmosferica trasforma la luce stessa in una scultura in lenta evoluzione. Se ci si ferma proprio dietro la fonte di luce – il proiettore – le curve e gli angoli acuti di luce sono tanto ben definiti da sembrare intagliati sul momento da un invisibile Pigmalione.
Cylinder II (2012) di Leo Villareal apre l'esposizione ed è la prima opera che si vede entrando nella galleria. La grande struttura, simile a un salice fatto di barre a specchio sospese, accoglie quasi 20.000 punti di luce a LED ed è contemporaneamente ipnotica e priva di senso. È una specie di gradevole spettacolo, ma appare qualcosa che potrebbe stare nell'atrio d'ingresso di un albergo di Las Vegas. Magic Hour di David Batchelor (2004-2007), d'altra parte, si ispira presumibilmente al perpetuo scintillio che di notte sovrasta il corso principale di Las Vegas. L'opera, composta di contenitori luminosi standard di varia forma e dimensione, adattati con diversi pannelli colorati, è graziosa da vedere, ma non centra l'obiettivo dell'usare la luce per creare uno spazio o per confondere la percezione.
Bulb Box Reflection (1975) di Bill Culbert a prima vista non sembra altro che una lampadina riflessa in uno specchio. Ma, se si guarda un'altra volta, la lampadina che si ha di fronte è spenta, mentre quella riflessa nello specchio continua a brillare. Piuttosto intrigante. Un'altra opera basata su una lampadina, Light Bulb to Simulate Moonlight (2008), si deve a Katie Paterson, l'artista più giovane del gruppo, e fa parte di una serie più vasta di opere relative agli spazi esterni. Pezzo semplice ma efficace, la lampadina di Paterson inverte la funzionalità di una lampada a incandescenza a "luce solare" per replicare la luce del plenilunio: non proprio pratico, ma certamente d'effetto. I pezzi di Ceal Floyer, Fischli e Weiss, Brigitte Kowanz, Philippe Parreno e Nancy Holt sembrano battute buttate là in mezzo a opere che non solo usano la luce per creare spazi interessanti, ma per creare spazi interessanti che conservano e alimentano l'interesse.
Nell'ultima sala della mostra, 27 fontane differenti e un fila di luci stroboscopiche creano un bell'effetto in Model for a Timeless Garden (2011) di Olafur Eliasson. Le luci stroboscopiche danno l'illusione che ogni goccia d'acqua che schizza dalle fontane si immobilizzi a mezz'aria, illusione creata dalla regolazione periodica della pompa. L'espediente percettivo non sta propriamente nell'opera di Eliasson, con la luce stroboscopica e le goccioline immobili: ciò che in realtà l'artista fa è illustrare come funziona realmente la fontana. L'acqua delle fontane non fuoriesce in un flusso continuo. Viene invece pompata fuori a gocce ma, poiché ogni gocciolina è pressoché identica a quella che la precede, i nostri occhi percepiscono le goccioline come un flusso continuo. Alla luce stroboscopica invece i nostri occhi percepiscono le gocce come in lento movimento, una per una e non nella caduta di un flusso continuo. Dato che "Light Show" è una mostra d'arte e non un museo della scienza, queste spiegazioni non sono sempre direttamente accessibili ai visitatori. Ma in fatto di luce, d'arte e di percezione metà del divertimento sta nello scoprire da sé il trucco. Oppure nel non scoprirlo e goderselo comunque.