"Tulkus 1880 to 2018" personale di Paola Pivi al Castello di Rivoli, Museo d'Arte Contemporanea è sicuramente uno tra i progetti più complessi di "It's not the end of the world", iniziativa curatoriale promossa da Artissima, la fiera d'arte contemporanea, composta di cinque eventi che presentano altrettanti artisti nelle maggiori istituzioni della città di Torino.
A Rivoli Paola Pivi riunisce un migliaio di ritratti fotografici di tulku del buddismo tibetano, persone riconosciute come la reincarnazione di un maestro buddista vissuto in precedenza. Questi ritratti di dimensioni differenti sono allestiti lungo i lati della Manica Lunga, una galleria lunga più di 140 metri, in fondo alla quale è stato esposto un thangka (dipinto) tibetano del XVII secolo raffigurante il tulku Tsuglag Gyatso, il Terzo Pawo Rinpoche (c.1576-1630).
L'artista si propone di raccogliere ritratti e informazioni del maggior numero possibile di tulku e delle loro precedenti reincarnazioni, a partire dall'avvento della fotografia fino ad oggi, ai fini di creare una collezione quanto più completa, se non esaustiva, di immagini fotografiche raffiguranti i tulku, appartenenti alle diverse scuole buddiste e bonpo, in tutte le aree del mondo dove è praticato il buddismo tibetano.
Nel 2013 il Witte de With Center for Contemporary Art di Rotterdam, che ha commissionato il progetto insieme al Castello di Rivoli, presenterà l'ulteriore sviluppo di questa ricerca. La ricerca e la raccolta di immagini continueranno fino al 2018.
Pier Francesco Cravel: Il senso di questa mostra è lo studio etnografico di una teocrazia in via di estinzione o la denuncia del rischio di distruzione di una cultura?
Paola Pivi: Il buddismo tibetano è diffuso oltre i confini del Tibet, in India, Mongolia, Bhutan, Nepal e altre regioni del mondo.
Oggi esistono tulku che si reincarnano in Occidente o che vi si trasferiscono. In alcune di queste aree, come ad esempio in Bhutan, non c'è il rischio di distruzione della cultura.
Tulkus 1880 to 2018
Una mostra, questa di Paola Pivi, che raccoglie migliaia di ritratti fotografici di tulku del buddismo tibetano, persone riconosciute come la reincarnazione di un maestro buddista vissuto in precedenza. Amplissimo lavoro etnografico che ha coinvolto centinaia di persone e istituzioni nel mondo. E che non è in vendita.
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- Pierfrancesco Cravel
- 20 novembre 2012
- Rivoli
La mostra non nasce come la denuncia di una situazione difficile. Il censimento delle fotografie dI tutti i tulku, è una ricerca antropologica e storica mai fatta prima, che coinvolge centinaia di persone e istituzioni. Però non si può negare e nemmeno ignorare che il secondo tulku per importanza, il Panchen Lama, è stato fatto sparire dal governo cinese tre giorni dopo il riconoscimento da parte di Sua Santità il Dalai Lama. Il Tibet è stato occupato militarmente dalla Cina nel 1959 con la giustificazione-fandonia che fosse lecito eradicare la teocrazia con il comunismo. Dal 1959 a oggi il Tibet vive una fase drammatica della propria storia. I tibetani, che sono un popolo estremamente pacifico sotto la guida del Dalai Lama, non hanno mai reagito con la violenza. Da circa due anni, però, decine di individui hanno iniziato a darsi fuoco invocando il ritorno del Dalai Lama in Tibet e in molti casi la liberazione del Tibet stesso. La maggior parte muoiono. Proprio oggi (9 Novembre 2012 n.d.r.) sei persone si sono date fuoco contemporaneamente; non nello stesso posto ma nell'arco delle ventiquattr'ore. Sono almeno sessanta le persone che hanno scelto di cospargersi di benzina e immolarsi per il loro paese.
Questo allestimento sembra evocare l'immagine delle navate. L'arte contemporanea difficilmente affronta temi religiosi da un punto di vista interno alla religione stessa. In che modo coesistono arte e religione nel tuo lavoro?
Il tulku in una teocrazia è un capo religioso ma anche un capo politico. Essi sono venerati come figure divine e hanno un grande potere.
In presenza di un tulku ci si abbassa perché la propria testa sia più bassa della sua. Quando in una stanza c'è un tulku, se per una qualche ragione si abbassa, tutti quanti si abbassano, dando luogo a una sorta di bellissima danza di teste. Sono rituali antichi, tramandati da centinaia di anni. Poiché sono occidentale, ho delegato la direzione della ricerca ai tibetani stessi, assecondandoli ogni volta che, per rispettarne la cultura, mi veniva chiesto di modificare degli aspetti del progetto.
Raccogliere tutte queste immagini è un lavoro colossale che dura da tre anni e che ancora dobbiamo finire. Abbiamo avvicinato tutte le istituzioni nel mondo che potrebbero conservare delle foto come —cito tre esempi a caso—il Newark Museum di Newark (US), il Pitt-Rivers Museum presso Oxford University, il Namgyal Institute of Tibetology, a Gangtok, in Sikkim. E grandi fotografi, come Melina Mulas che ha avuto l'incarico dal Dalai Lama anni fa di fotografare molti tulku e maestri, Don Farber, che li ha ritratti per trent'anni, Tim Rooderys, che avendo appreso di questo progetto ha deciso di dedicarvi sei mesi della sua vita, e molti altri ancora.
Il mio lavoro di artista consiste nell'avere avuto quest'idea e averla portata fin qui. Ho deciso la dimensione delle foto e scelto quelle che mi piacevano di più, attratta da un particolare architettonico, dalla bellezza di uno sfondo, dalla decorazione dei troni, dagli abiti, dalle posture o dagli sguardi. Posso disporre una dopo l'altra le immagini di due tulku di cui il secondo è la reincarnazione del primo. Decidere il loro allestimento.
Per un buddista un’immagine grande, bella, scattata da Raghu Rai o Matthieu Ricard e un’immagine sfocatissima, molto piccola o pubblicata sul web, hanno lo stesso valore spirituale
Questa mostra ha un senso e una direzione, in fondo e al centro di questa lunga galleria hai posto un dipinto sacro e non una fotografia.
È un thangka tibetano del XVII secolo. È esposto in posizione centrale, come simbolo dell'origine della tradizione ritrattistica fotografica dei tulku. La fotografia più antica finora ritrovata, che ritragga un tulku, risale al 1873; ritrae Sidkyong Tulku, tulku e ottavo re del Sikkim, una monarchia indipendente fino al 1976 e ora uno stato dell'India. In mostra abbiamo i ritratti del Decimo e Undicesimo Pawo Rinpoche, quello di Lama Osel, uno spagnolo, perché oggi le reincarnazioni avvengono anche in Occidente.
Altre immagini antiche provengono dall'archivio del Ministero della Religione del Governo Tibetano In Esilio (Dept. of Religion and Culture, Central Tibetan Administration) da un vecchio album di foto scattate da qualcuno che cinquanta anni fa deve aver avuto un'idea simile alla mia. Non conosciamo nemmeno il nome di oltre la metà dei personaggi ritratti in questo album.
Quindi l'opera, cioè il tuo gesto consiste nella ricerca e nell'allestimento di queste immagini sacre?
Queste foto sono sacre, la foto "è" il tulku. Se proprio vogliamo cercare un corrispondente per capirci, potrei dire che sono come l'ostia.
Centinaia di persone, di istituzioni e di tulku, a iniziare dal Private Office di Sua Santità il Dalai Lama, fino a dei tulku bambini che apparentemente ancora sanno poco del loro destino, mi hanno dato la loro fiducia prestandomi le loro foto o le foto di altri tulku che avevano. Queste foto sono sacre per definizione, anche senza bisogno di una cerimonia o rituale. Per questo non potrò gettare le prove di stampa, perché contengono il tulku. Queste immagini potenti e bellissime già esistono nella cultura del buddismo tibetano, si trovano nei monasteri, nelle case buddiste, nei negozi, negli uffici, si possono comperare per strada. Ho fatto una raccolta a tappeto di tutte queste immagini e parallelamente una ricerca su ognuna di esse, avvalendomi della straordinaria consulenza del grande storico tibetano Tashi Tsering, Direttore di Amnye Machen Institute, Tibetan Centre for Advanced Studies, in Dharamshala, India. In mostra sono esposte anche molte foto antiche di tulku di cui non conosciamo nemmeno il nome. Studiando gli itinerari dei missionari che avevano scattato le foto, tenteremo, interrogando gli anziani del luogo, di identificarle.
Una cosa che a me piace molto è che oltre agli sguardi "trapassanti" dei tulku (per citare Mariuccia Casadio), la mostra espone migliaia di dettagli colorati contenuti negli sfondi delle foto che parlano di paesaggi, stanze, vestiti, cibi, oggetti e che raccontano la storia del Tibet.
Un'altra cosa che ritengo importante è che questa mia opera non resterà mia, le foto non verranno mai vendute, ma verranno restituite ai proprietari o donate ai Tibetani. È una enorme mostra e operazione del mondo dell'arte contemporanea, priva di profitto.
Fin dall'inizio avevo capito che questo progetto poteva realizzarsi solo se la comunità tibetana si fosse unita ad aiutarmi a produrlo e questo è avvenuto. Non ho modo di ringraziare tutti qui, perché sono centinaia. Qui vorrei ringraziare alcune persone della comunità artistica che hanno sostenuto questo progetto: Davide Trapezi, il curatore, Andrea Bellini, che ebbe la visione della manica lunga e mi ha accompagnato nello sviluppo del progetto, Beatrice Merz, direttrice del Castello di Rivoli che mi ha supportato durante la mostra, e Defne Ayas, direttrice di Witte de With Museum of Contemporary art.
In un'epoca caratterizzata dalla diffusione delle immagini attraverso il web e quindi anche dalla velocità del loro consumo ha senso rievocare la sacralità stessa di un'immagine? Queste immagini postate su Facebook non perdono la loro dimensione trascendente?
No, per un buddista un'immagine grande, bella, scattata da Raghu Rai o Matthieu Ricard e un'immagine sfocatissima, molto piccola o pubblicata sul web, hanno lo stesso valore spirituale.
Paola Pivi
"Tulkus 1880 to 2018"
a cura di Davide Trapezi
fino al 6 gennaio 2013
Castello di Rivoli, Museo d'Arte contemporanea
Piazza Mafalda di Savoia
Rivoli (Torino)