Sarà completata tra pochi mesi la Torre Unipol di Milano. Abbiamo attraversato l’edificio in fase di rifinitura insieme al suo progettista, Mario Cucinella, che ci ha spiegato la genesi del progetto, le sue ragioni spaziali, strutturali e formali. Soprattutto, ha condiviso con noi qualche interessante considerazione di processo, raccontandoci del “cantiere di una torre che, in fondo, è ancora fatta a mano, come tutti gli edifici contemporanei”. La conclusione dei lavori per la Torre Unipol segna anche la fine dell’onda lunga dell’operazione Porta Nuova, il più imponente e importante progetto urbano della città degli anni 2000, che l’ha dotata di una downtown di aspetto e ambizioni globali – finalmente, secondo alcuni, troppo tardi o inutilmente, secondo altri. Il piccolo lotto all’angolo tra via Melchiorre Gioia e via Fratelli Castiglioni è rimasto a lungo il suo tassello più problematico. La situazione di stallo si è sbloccata nel 2014 con l’ingresso in scena di Unipol, che tramite concorso a inviti ha incaricato Mario Cucinella Architects di realizzarvi la sua nuova sede di rappresentanza nel capoluogo lombardo, dove confluiranno circa 650 persone.
Con Mario Cucinella nel cantiere della Torre Unipol, ormai quasi completata
Mancano pochi mesi all’apertura dell’ultimo “peso massimo” della più importante operazione urbanistica della Milano degli anni 2000, Porta Nuova. Abbiamo visitato il cantiere accompagnati dal suo progettista.
Foto © Marco Garofalo
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- Alessandro Benetti
- 04 settembre 2023
Per quanto imponente, la torre di Cucinella non compete per il record di altezza italiano: con i suoi 124 metri e 23 piani si colloca attorno al diciassettesimo posto nazionale – la classifica è sempre un po’ instabile a causa dei diversi criteri di misurazione possibili – e al secondo tra le proprietà Unipol, tre metri sotto i suoi headquarters bolognesi. Nel paesaggio urbano della Milano contemporanea è tipica più che eccezionale, perché prosegue l’abbondante genealogia di high-rise realizzati in città negli ultimi quindici anni. Per questo è utile raccontarla ricercando analogie e differenze con i suoi omologhi. La sua pianta ellittica, caso per ora unico a Milano, e le sue facciate curve la avvicinano ai movimenti organici del Palazzo Lombardia di I. M. Pei (2010), della Torre Unicredit di Cesar Pelli (2012) e di due delle tre torri di City Life. Il taglio sbieco del coronamento, invece, la accomuna sul piano concettuale alla vicina Diamond Tower BNP Paribas di Kohn Pedersen Fox (2012). In entrambi i casi l’inclinazione della copertura ricalca le diagonali che il regolamento edilizio proietta sulle nuove costruzioni a partire dagli edifici esistenti, in una sorta di attualizzazione assolutamente pragmatica delle misteriose New York anni ’20 di Hugh Ferriss. Piuttosto inedito per Milano è il linguaggio di facciata, dove i moduli triangolari della maglia strutturale in acciaio sono anche decorazione astratta di un curtain wall senza interruzioni.
Il trattamento dell’involucro è un elemento cardine di quello che si vuole uno dei punti forti dell’edificio: la sua sostenibilità. Niente di originale, si dirà, e vi risparmieremo in questa sede le riflessioni sull’impiantistica di vario tipo e le immancabili certificazioni. L’aspetto più notevole è che dai tempi ormai lontani del Bosco Verticale di Stefano Boeri con Gianandrea Barreca e Giovanni La Varra (2014) nessuna torre milanese aveva tradotto la riflessione su questo tema in un’invenzione spaziale di qualche interesse. Se nel caso di Boeri si era trattato di moltiplicare i micro-giardini pensili ad uso domestico, Cucinella si concentra piuttosto sulla hall d’ingresso. L’intercapedine della facciata ventilata che avvolge l’edificio, con vetro singolo all’esterno e doppio all’interno, s’ingigantisce fino a contenere un monumentale atrio di 75 metri di altezza, reso ancor più vertiginoso dall’accesso su due livelli – da via Gioia e dalla piattaforma di piazza Gae Aulenti. Cucinella definisce questo vuoto interno come uno “spazio di moderazione climatica”, di cui siamo curiosi di verificare l’efficacia durante le insopportabili estati milanesi. Si tratta, in ogni caso, di un’interessante riproposizione contemporanea e in chiave bioclimatica della soluzione adottata da alcuni leggendari headquarters statunitensi degli anni ’60, su tutti la Ford Foundation di New York di Kevin Roche e John Dinkeloo (1967). Pare, purtroppo, che né questo né altri spazi di notevole impatto, ad esempio la lounge al ventitreesimo piano o la scenografica scala rosso fuoco che congiunge tra loro gli ultimi livelli, saranno accessibili al pubblico.
Cucinella descrive la Torre Unipol come il primo caso in Italia di architettura a concezione interamente parametrica, ma non nasconde il profondo scollamento che esiste tra progettazione digitale e realizzazione sostanzialmente artigianale. Il modello digitale BIM, l’acronimo di Building Information Modeling, che contiene tutti i dati sulle forme, i materiali e la componentistica dell’edificio, dovrebbe assicurarne la condivisione istantanea tra migliaia di operai più o meno specializzati e centinaia di fornitori. Il processo di traduzione di queste informazioni in materia analogica, però, resta ancora da perfezionare. Così, il cantiere diventa un crogiolo di lingue umane e digitali, dove l’operazione del costruire resta sostanzialmente fatta a mano.
Cucinella elabora anche una seconda narrazione decisamente più eroica dello svolgimento del cantiere. Sottolinea l’importanza che ha avuto la programmazione impeccabile delle forniture, perché il poco spazio a disposizione impediva l’accumulo di materiali, “proprio come a Manhattan”. Si sofferma, per concludere, sulla realizzazione dei nodi di facciata: “erano da costruire nel vuoto, e senza nessun margine d’errore. In più, la saldatura dei giunti, che richiede diverse ore, era da completare in un solo momento, senza interruzioni”. Per questo gli operai si sono dati il cambio all’interno di piccole casette temporanee aggrappate alla struttura in via di completamento, a molte decine di metri dal suolo. Al di là dell’aneddoto, si tratta di un’immagine decisamente parlante dello sforzo, concettuale e umano, che richiede ancora oggi la realizzazione di un edificio di grande scala come la Torre Unipol. È un fattore di cui ci si dimentica facilmente di fronte ai profili urbani scintillanti, fantasiosi, apparentemente effortless delle città contemporanee.
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