Con la crisi del virus corona è tornata in auge la discussione sulle aree interne italiane, che comprendono le Alpi e la fascia appenninica (isole comprese), prevedendo che in molti sceglieranno di trasferirsi in futuro per meglio affrontare le possibili nuove emergenze sanitarie e la crisi economica in arrivo. Fra gli architetti che animano la discussione però in pochi abitano stabilmente in queste aree tutto l’anno come invece Maria Giuseppina Grasso Cannizzo. Da oltre trent’anni è tornata a vivere a Vittoria, in provincia di Ragusa. Si tratta di una zona molto bella della Sicilia, ricca di architetture barocche e liberty, stretta fra i Monti Iblei e il mare con una grande e fertile piana dove abbondano le coltivazioni in serra che l’hanno resa la zona più ricca dell’isola tanto da essere chiamata per questo la Padania siciliana. E nonostante le molte glorie letterarie del luogo – Leonardo Sciascia ha scritto un libro su Ragusa [1], il suo amico Gesualdo Bufalino è nato e vissuto a Comiso e il suo primo romanzo torna ora d’attualità [2] – resta un posto sperduto e difficile da raggiungere. Grasso Cannizzo vive sola con una gatta un po’ malandata e risponde dal suo divano rosa.
Come sta vivendo questo periodo, architetto?
Piuttosto male, perdo molto tempo tra telefonate e videoconferenze, pensavo di poter leggere di più e invece faccio più fatica a concentrarmi, inoltre i cantieri sono chiusi e credo che riusciranno a ripartire solo a giugno.
Lei ha scelto da tempo di vivere in un’area interna, vicina alla sua città natale – Santa Croce Camerina –, cosa ne pensa del dibattito che si è sviluppato ora sulla possibile fuga dalle città?
È sempre una scelta di vita, al di là se si torna o se si va da un’altra parte. Il mio amico artista Mario Airò ad esempio si è trasferito in campagna diversi anni or sono perché il figlio piccolo gli aveva chiesto dove nasceva il sole e in città non riusciva a capirlo. Mi fa sorridere il fatto che di colpo sembra che se ne siano accorti tutti. Queste zone, che io preferisco chiamare aree marginali, esistono da sempre. Dopo anni trascorsi a discutere di densità urbana, ecco che ora si cambia rotta. Il primo come sempre è stato Rem Koolhaas con il Countryside, che faccia tosta, proprio lui che è partito da Manhattan…
Veramente, a giudicare dal libro [3], più che un cambio di rotta sembra un’estensione irrefrenabile della città verso la campagna…
Ma non so, so solo che io ho abitato a lungo a Roma, a Trastevere, fra i 18 e i 31 anni, e poi a Torino per un bel po’. Nella capitale una volta non c’erano i quartieri, ma i rioni, che avevano una forte identità e che soprattutto avevano una qualità in comune: erano entità assolutamente autonome. In ogni rione trovavi il calzolaio, la ferramenta, l’impagliatore di sedie e così via, c’era tutto. Oggi invece devi passare intere giornate sull’autobus solo per trovare qualche vite o un ricambio domestico, è una follia. C’era un’idea di comunità, ci si conosceva più o meno tutti o almeno c’era un rapporto di conoscenza. Tutto questo invece è sopravvissuto solo nelle aree marginali.
Non posso credere che sia tornata in Sicilia solo per una questione di comodità o di comunità, lei che è nota fra l’altro per la sua passione per l’arte solo per fare un esempio.
La scelta di andare in un’area lontana come la mia è una scelta diversa dalle altre, credo. Avendo vissuto in città che sono state centrali in due fasi storiche molto vivaci, sono stata sollecitata da tutte le parti, dalle persone che ho incontrato, dalle mostre che ho visto, dall’apprendimento ecc. A un certo punto però ho avuto la necessità di incartare tutto e metterlo in una valigia, portarlo da un’altra parte per vedere cosa farne. In un posto dove tutte quelle sollecitazioni non c’erano, poi anche per ragioni personali. Fra l’altro io fino a quasi 40 anni ho ondeggiato anche sul mestiere da intraprendere, ho deciso di tornare in Sicilia a 39 anni. Tutto questo però mi ha fatto capire e selezionare le cose importanti accumulate in precedenza. Nella mia formazione è stato fondamentale conoscere persone come Bruno Zevi, Franco Minissi o Mario Fiorentino che, devo dire, mi ha particolarmente colpito come uomo prima che come architetto. Era un grade collezionista d’arte, quando andavo a revisione da lui c’era da incantarsi: tele di Cy Twombly, Pino Pascali, Alighiero Boetti, Andy Warhol… di tutto, buttate per terra, appoggiate a caso. Corviale è un progetto utopico, ci ho fatto l’esame di disegno dal vero al IV anno, meno male che non ho fatto l’esame con Ludovico Quaroni perché sennò mi avrebbe rovinata, mi sarei data all’urbanistica, chissà. Un altro era Maurizio Sacripanti, quasi sempre sbronzo, però parte di un ambiente romano estremamente stimolante. Sono questioni a cui non pensi, ma se lo fai, poi, a distanza di molti anni ti accorgi di quanto hanno pesato e pesano tuttora.
C’era un’idea di comunità, ci si conosceva più o meno tutti o almeno c’era un rapporto di conoscenza. Tutto questo invece è sopravvissuto solo nelle aree marginali
Crede che le aree interne e marginali possano tornare a essere attrattive dopo decenni, se non secoli, di movimento in senso contrario? Quali sono le caratteristiche architettoniche e urbanistiche in queste zone?
La popolazione qui può trovare case di dimensioni molto diverse da quelle della città e dunque vivere in condizioni molto diverse, per esempio c’è più spazio a disposizione, non devi prendere mezzi pubblici anche perché non ce n’è (solo due autobus al giorno vanno da Ragusa verso la costa). Tutto quello che per noi erano problemi cioè assenza di treni, isolamento ecc., adesso con la pandemia si stanno rivelando dei vantaggi: qui in due km sei già in aperta campagna. A Vittoria puoi passeggiare fra coltivazioni di agrumi e mandorli, verso il mare invece ci sono più serre, in generale la qualità dell’aria è migliore. Quando leggo le classifiche delle città più vivibili sui giornali mi spavento perché il criterio principale è quello dei servizi, ma io posso vivere anche con meno servizi, anzi credo che presto bisognerà rinunciare ad alcuni di questi come quando ero giovane, forse, non so, non posso pensare di avere tutto senza pagarne il prezzo. In tanti hanno il terrore di dover rinunciare allo stile di vita della città o peggio di sentirsi isolati, ma io devo dire che vivo ora come se fossi a Roma nel senso che non ho perso mai i contatti con i miei amici lontani né ho ceduto mai all’invadenza della piccola città per cui la maggior parte dei miei concittadini non sanno bene cosa faccio proprio come in una metropoli.
Pippo Ciorra, in un articolo dedicato al suo ultimo progetto, un ex asilo trasformato in abitazione privata, nota che uno dei motivi per cui lei è stata riconosciuta dalla critica in ritardo rispetto al valore della sua opera è a causa della piccola scala dei suoi progetti [4]. Pensa che possa essere questa la cifra di tutte le aree marginali, vale a dire la piccola scale e il riciclo dell’architettura?
La piccola scala a partire dagli anni ’70 è stata come messa da parte, sicuramente in Italia, ma anche altrove. Nelle vecchie riviste di architettura un tempo era la norma, poi a un certo punto non glie ne è fregato più nulla a nessuno sia nelle aree urbane sia altrove; nella periferia è evidente che la piccola scala sia invece importante visti i mezzi ridotti a disposizione. Legare la dimensione alla complessità del progetto è sbagliato secondo me, il grande intervento fra l’altro è sempre legato ai rapporti con la politica anche qui in Sicilia nelle aree marginali. Anche io ho cominciato tentando una collaborazione con la politica qui, ma ho mollato subito quei primi progetti perché ho capito che avrei dovuto pagare un prezzo, in termini di ricatti. Non sono una integralista, so accettare il compromesso: coi clienti della casa Nicastro a Modica, un paio d’anni fa, ho fatto i salti mortali per tenere in piedi l’ex stalla, ma poi ho capito che non aveva le fondazioni e mi sono arresa alla demolizione cambiando il progetto.
Circa quindici anni fa un’associazione culturale mi ha chiamato per fare una mostra sul mio lavoro, “purché siano a grande scala”. Allora gli ho chiesto se avessero mai visto i miei progetti. Dopo averne preso visione, mi dissero infine “Ah no, non siamo più interessati”. Al contrario, quando Alejandro [Aravena] mi ha chiamato si era prima studiato per bene la mia opera e aveva già capito che tutto il territorio è disegnato alla piccola scala [5], non è la grandezza che migliora la qualità di ciò che abbiamo, ora mi pare che se ne stanno accorgendo un po’ tutti.
Infine vorrei chiederle una considerazione sull’emergenza climatica che ci attende, oltre a quella del virus corona.
Credo che semplicemente fino ad ora l’uomo non si è mai considerato una specie che viveva su questo pianeta: tutte le altre specie animali si potevano beccare i virus, si potevano spostare da un’altra parte, potevano essere cacciate o mangiate ad libitum e invece ora abbiamo capito che siamo come loro e dobbiamo comportarci di conseguenza.
- [1]:
- Leonardo Sciascia, Invenzione di una prefettura. Le tempere di Duilio Cambellotti nel Palazzo del Governo di Ragusa, Milano, Bompiani 1987
- [2]:
- Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, Palermo, Sellerio 1981; The Plague Sower, New York, Eridanos 1988
- [3]:
- Rem Koolhaas, AMO, edited by, Countryside, a Report, Köln, Taschen 2020
- [4]:
- Pippo Ciorra, Opera anonima. L’asilo-casa di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, in “Vesper” n. 2, 2020, pp. 42-47
- [5]:
- Alejandro Aravena, edited by, Reporting from the Front: 15th International Architecture Exhibition La Biennale di Venezia, Venice, Marsilio 2016