Siamo nell’ottobre 1967, Che Guevara veniva catturato e fucilato, i Pink Floyd pubblicavano il loro primo album e nel sud-est asiatico era ancora Guerra del Vietnam. Nascono Alejandro Aravena e Tokujin Yoshioka e manca pochissimo all’esplosione sessantottina. Nelle pagine di Domus 455 lo storico e critico d’arte Tommaso Trini commenta una mostra a Venezia che in quel periodo fa scalpore.
Si tratta di “Campo Vitale” a Palazzo Grassi, e l’articolo è intitolato Visivi, vitali, visionari. Vengono messe a confronto due generazioni, quella che lotta contro la spersonalizzazione dell’uomo e l’altra che simboleggia l’età dell’accettazione, assimilando le “appariscenti immagini di una realtà avviata a trasformazioni radicali”: gli artisti Pop. Andy Warhol c’è ed espone qui le opere del periodo della “morte” (Bomba atomica e Funerale di Kennedy) e dei “ritratti” (le trenta Gioconde che sono meglio di una).
“Andy Warhol si trovava a Milano, un mese prima della morte, all’inaugurazione della sua mostra di riporti fotografici ispirati all’Ultima Cena. Pranzammo insieme quel giorno, e lui, senza perdere la sua flemma ironica, mi chiese: ‘Pierre, pensi che gli italiani comprenderanno la mia immensa stima per Leonardo?’. Sono queste piccole frasi che nutrono le grandi leggende. E la leggenda di Warhol è come l’America: una nazione che ha le dimensioni di un continente. Elevandosi al livello di Picasso e di Dalì nell’olimpo dello star system, Warhol eclissa tutti gli artisti della seconda metà del Ventesimo secolo.”
Sono le parole di Pierre Restany su Domus 798, novembre 1997. Il suo articolo Il pittore superstar: eroe e martire della cultura globale analizza le conseguenze perverse della mondializzazione della comunicazione nella sfera dell’arte.
In una conversazione del 2005 (Domus 878) con il designer olandese Joris Laarman e il direttore di Domus Stefano Boeri, Magistretti usa Warhol per spiegare il suo approccio al design: “Quello che mi piace nel design è automaticamente connesso a quello che conosco riguardo al processo industriale, in base alla mia esperienza. Anche Andy Warhol sosteneva che la ripetizione fosse qualità.”
Pensavo che i giovani avessero più problemi dei vecchi, e speravo di arrivare a diventar vecchio per non avere più tutti i problemi dei giovani. Ma guardandomi intorno vedevo che tutti quelli che sembravano giovani avevano problemi da giovani e quelli che sembravano vecchi avevano problemi da vecchi. E i “vecchi” mi sembravano più facili dei “giovani”, come problemi. Perciò mi son tinto i capelli di grigio, all’età di circa 23, 24 anni.
“Caro Andy, la sirena della Nuova Triennale suona anche per te. So che verrai a presentare la tua “persona” dentro la nostra nave errante. E questo è importante: perché se la Triennale rappresenta un passato di valori in abbandono, tu in quanto lucido moderno antieroe rappresenti la coscienza che il progetto vive in un labirinto disincantato fatto anche di parafrasi, di artifici, di falsità e indeterminatezza.”
Un estratto dall’editoriale di Alessandro Mendini pubblicato sotto forma di lettera aperta a Andy Warhol su Domus 603, febbraio 1980. L’occasione è la riapertura della Triennale di Milano nella sua sedicesima edizione, dopo sei anni di silenzio.
Domus offriva una panoramica completa sul lavoro di Andy Warhol nel saluto d’addio pubblicato due mesi dopo la sua morte, avvenuta nel febbraio 1987. Si tratta di Domus 682, diretta da Mario Bellini.
“Andy Warhol, o, con il suo vero nome, Andrew Warhol, nasce a Pittsburgh in Pennsylvania nel 1930 (o 1928, la data è incerta) da genitori immigrati una decina di anni prima dalla Cecoslovacchia. Nel 1949, conseguito il Bachelor of Arts al Carneige Institute della sua città, Warhol si reca a New York dove incomincia a lavorare come disegnatore di calzature per la fabbrica di scarpe Glamour. I disegni di queste scarpe saranno peraltro l’oggetto di una delle sue primissime mostre. In quel periodo, Warhol è un disegnatore dal tratto sottile; avrà una brusca impennata di stile quando, sul finire degli anni Cinquanta, esplode il fenomeno dell’arte Pop. Warhol ne diverrà presto uno dei maggiori esponenti insieme a Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein e Claes Oldenburg.”
“Warhol non mi piace più. I suoi nuovi dipinti non sono ben costruiti; tutto quel rosso è inutile, è ovvio...”
A parlare è Xante Battaglia mentre racconta a Gregory Battcock della sua ultima mostra “Cubes” alla Bonino Gallery di New York, durante il ricevimento di apertura. Sulle pagine di Domus 569 si parla di cemento prefabbricato, discoteche, tensostrutture, comunità per anziani, uffici circolari e tetti giardino. Siamo nell’aprile del 1977 (sì, cinquant’anni fa) e la rivista è diretta da Gio Ponti e Cesare Maria Casati.
In Domus 553 una recensione sul libro di Andy Warhol The Philosophy of Andy Warhol propone un estratto inedito sul perché Warhol si fosse tinto i capelli di grigio.
“Pensavo che i giovani avessero più problemi dei vecchi, e speravo di arrivare a diventar vecchio per non avere più tutti i problemi dei giovani. Ma guardandomi intorno vedevo che tutti quelli che sembravano giovani avevano problemi da giovani e quelli che sembravano vecchi avevano problemi da vecchi. E i “vecchi” mi sembravano più facili dei “giovani”, come problemi. Così decidi di diventare grigio, così nessuno avrebbe più saputo la mia età. E io sarei sembrato più giovane di quanto vecchio la gente pensava che fossi. A diventare grigi c’erano molti vantaggi: 1) avrei avuto problemi da vecchio, che erano più facili dei problemi da giovane; 2) tutti si sarebbero stupiti di come sembravo giovane, e 3) sarei stato sollevato dalla responsabilità di comportarmi da giovane, e potevo di tanto in tanto abbandonarmi a eccentricità e senilità e nessuno ne avrebbe detto niente, per via dei miei capelli grigi. Con i capelli grigi, ogni mossa che fate sembra “giovane” e “svelta”, invece che normale. È come se aveste un talento speciale. Perciò mi son tinto i capelli di grigio, all’età di circa 23, 24 anni.”
È il 1975, Margaret Thatcher diventa leader del Partito conservatore britannico, si formano i Sex Pistols e gli Iron Maiden e la guerra del Vietnam finisce.
Numeri citati: Domus 455, Domus 536, Domus 541, Domus 553, Domus 569, Domus 603, Domus 607, Domus 658, Domus 682, Domus 798, Domus816, Domus 837, Domus 878, Domus 922, Domus 988