Alessandro Mendini nasce a Milano nel 1931 e qui si laurea, in architettura, al locale Politecnico. Associato in un primo momento allo studio Nizzoli (1960-1970), è tra i più noti e apprezzati designer contemporanei, protagonista fin dagli anni Settanta del rinnovo della produzione made in Italy grazie alla sua adesione a numerose avanguardie del Radical Design (tra le altre Alchimia, primo luogo delle sperimentazioni sul tema della decorazione, che gli valsero un Compasso d’Oro nel 1981) e a un’instancabile partecipazione al dibattito teorico. Ha infatti diretto le riviste “Casabella” (dal 1970 al 1976), “Modo” (dal lui fondata nel 1977 e guidata fino al 1981) e “Domus” (1979-1985; 2010-2011), alla cui direzione fu in principio chiamato dallo stesso Gio Ponti, in procinto di lasciare per raggiunti limiti d’età. Fra i suoi scritti più celebri, si ricordano “Paesaggio casalingo” (1979), “Architettura addio” (1981), “Progetto infelice” (1983), “Existenz maximum” (1990): tutte occasioni, queste, durante le quali ha messo a punto concetti fondamentali come “design neo-moderno” (equiparato al Manierismo cinquecentesco, che fu in grado di corrodere dall’interno le regole classiche del progetto), “casa banale” (che riconosce il valore del brutto e del kitsch nel quotidiano) e redesign.
Parallelamente, ha avviato la sua straordinaria e personalissima carriera progettuale (nella quale lo affianca il fratello Francesco con cui ha fondato, nel 1989, l’Atelier Mendini) che lo ha visto collaborare con aziende come Zanotta, Alessi, Swatch, Philips, Venni, Bisazza e Cartier. In campo architettonico, ha firmato il Museo Groninger (1988-1994, 2010), le fabbriche Alessi e il Forum-Museum di Omegna (1996), il Teatrino della Bicchieraia ad Arezzo (1998), la ristrutturazione urbanistica del quartiere Maghetti a Lugano (1998), il rinnovo della Stazione Termini a Roma (1999), il restauro della Villa Comunale (1999) e di tre stazioni della Metropolitana a Napoli (2000), la nuova Fiera e la nuova sede della Triennale di Milano a Incheon, in Corea del Sud (2008-2009).
Internazionalmente riconosciuto come raffinato ricercatore di un approccio sui generis all’oggetto (edilizio o di design), che affonda le radici nello stretto legame tra arte e progetto, con particolare interesse all’uso del colore, e una sottile e costante vena ironica, è stato fortemente critico, fin dagli esordi, nei confronti della società dei consumi e costantemente in bilico tra ispirazioni provenienti, da un lato, dall’immaginario letterario e, dall’altro, dal mondo popolato d’immagini di quadri e pitture che lo accompagnano fin dall’infanzia.
Sue alcune delle più note icone della produzione italiana degli ultimi sessant’anni: dalla poltrona Proust (1978), alle innumerevoli collezioni di oggetti firmati per Alessi, una moltitudine di manufatti che – come ha notato la critica più attenta e recente – ripercorre l’ossessione del padre putativo di Alessandro Mendini, Gio Ponti, per uno scarno gruppo di tematiche fondamentali (l’ideario pontiano), sviscerate in una serie infinita e diacronica di declinazioni. Attraverso una pratica che è tipica dell’artista: la costruzione di fantasie grafiche e decorative, intese come segnale diretto e senza intermediari di quello che lo stesso progettista ha definito il proprio “pensiero visivo”, nonché “atto vitale”.
Ai primi anni della carriera di Mendini risalgono le opere poi categorizzate come “oggetti ad uso spirituale” (la sedia “Lassù”, la seduta “Scivolavo”, la “Valigia per l’ultimo viaggio”, tutti realizzati tra il 1974 e il 1975) che mirano a sganciarsi dalla consueta razionalità d’uso intrinseca alla loro natura: un bagaglio in pietra impossibile da sollevare, una sedia tanto alta da doversi arrampicare, l’altra realizzata in forme e dimensioni inusuali e stranianti, concepiti per spingere a riflettere sulla natura transitoria tanto degli oggetti quanto dell’esistenza dell’uomo. Pezzi unici, proto-forme, spesso oggetti auto-costruiti e più simili alle performance artistiche, destinati a una distruzione programmata, che sfidano la concezione del design come frutto del solo soddisfacimento del criterio di funzionalità e che, rifacendosi alla tradizione delle avanguardie artistiche d’inizio novecento (Dadaismo e Surrealismo), propongono paradossi visivi volti a stimolare riflessioni critiche sul funzionalismo medesimo. Al punto che si rende necessario riformare il sistema progetto dall’interno, inaugurando una scuola – la Global Tools (1974) - che avrà vita brevissima ma vedrà la partecipazione di Alessandro Mendini, ovviamente, di Archizoom, UFO, Superstudio, Gaetano Pesce, Ettore Sottsass, Ugo La Pietra, Gianni Pettena: un moderno laboratorio in stile Bauhaus, che mette in discussione il ruolo dell’architetto e del designer come meri tecnici al servizio dell’economia di massa, in favore di figure anti-specialistiche e anti-disciplinari, che si avvale del supporto di molteplici approcci i quali esulano dalla tradizione consolidata, ma recuperano la dimensione artigianale e manuale, tipica del Bel Paese.
Sono, questi, gli anni dell’adesione al cosiddetto contro-design, in cui Alessandro Mendini avvia anche la riflessione sul tema del redesign, inteso come nuovo linguaggio visivo che risignifica gli oggetti del quotidiano: intervenendo per sovrapposizione o contaminazione su pezzi già esistenti, anonimi o d’autore, attraverso l’uso di colori o stili estranei al progetto originario, se ne reinterpretano i significati in chiave disinvolta e ironica. Ne sono esempio le nuove forme che soffocano la sedia Wassily di Marcel Breuer (1978), o le bandierine colorate poste in cima alla Superleggera di Ponti, che ne sottolineano beffardamente la leggerezza; così come le quattro madie adespote degli anni Quaranta, che vengono completamente rivisitate attraverso dipinti e collage, applicati su tutta la superficie e derivanti dall’immaginario figurativo di Futurismo e Costruttivismo. Apice di questo processo è la poltrona Prosut: una banalissima seduta finto-barocca, trasformata in un omaggio al celebre scrittore francese ricoprendola di un pattern – dipinto direttamente sul tessuto e sulla struttura in legno, attraverso un piccolo pennello e senza uno schema disegnato a priori - che richiama la tecnica del puntinismo di Paul Signac. Un atteggiamento, quello del redesign, che Mendini riassume in una celebre affermazione. In “Originalità del falso” (1997) scrive:
Io invento e assieme copio, perché nel panteismo dell’enorme via Lattea delle merci, tutto quello che posso pensare già esiste: l’importante è che sia originale il mio modo di falsificare
In questo quadro appare chiaro il ruolo della decorazione, che assumerà per Mendini un’importanza sempre più centrale perché, a differenza della funzione, è ritenuta un valore stabile e antropologico, con cui l’uomo è in grado di entrare empaticamente in relazione.
Negli anni Settanta, come detto, gli oggetti sono spesso autoprodotti e bisognerà attendere il decennio successivo e l’incontro di Alessandro Mendini con la vera e propria produzione in serie per coglierne l’evoluzione. Fondamentale è il rapporto che il designer milanese instaura con industriali come Aurelio Zanotta e Alberto Alessi, che lo spingono a superare l’originario conflitto con il tema del pezzo unico. Così, nel lungo arco temporale compreso tra il 1981 e il primo decennio del XXI secolo, nascono numerosi esperimenti con Alessi: la serie di multipli artistici intitolata “Tea and coffee piazza” (1983), composta da micro-architetture per la tavola, e la serie diversificata “100% Make up”. In quest’ultimo caso, un unico vaso – disegnato nelle sue forme dallo stesso Mendini – viene decorato da cento diversi artisti, architetti e designer, e prodotto in soli cento esemplari per tipo. Per un totale di diecimila pezzi, che provano a oltrepassare il limite intrinseco nell’anonima serie industriale grazie all’introduzione di pattern decorativi che, invece, raccontano l’individualità di ciascuno dei personaggi invitati a personalizzarlo. O, ancora, i ben noti cavatappi “Anna G.” e “Alessandro M.”, che si trasformano in personaggi quasi tetrali, con una specifica indole e un guardaroba personale.
Il tema dell’aberrazione dimensionale si ripropone, invece, in oggetti come i “Mobili per uomo” disegnati per Bisazza nel 1997: su contenitori che fungono da piedistallo vengo poggiate riproduzioni ingigantite di simboli del life-style di un businessman di successo: un cappello Borsalino, una ventiquattr’ore da ufficio, una tazza da caffè, interamente ricoperte da microscopici mosaici ceramici che ne smaterializzano – alla maniera della poltrona Proust – l’immagine complessiva.
Ad anni più recenti risalgono opere come “Visage Arcaïque” e “Tête Géante” (2001-2009), che introducono il tema dell’antropomorfismo: forme geometriche primitive (cubi, piramidi, ecc.) realizzate con i più disparati materiali e per diverse aziende (Venini, Cartier, ancora Bisazza), vengono assemblate a disegnare teste giganti, che ricordano volti umani e al contempo si rifanno agli stilemi del Costruttivismo russo.
Grazie all’indiscusso valore della sua opera, Alessandro Mendini è stato insignito di numerosi premi: è Chevalier des Arts et des Lettres (titolo conferitogli in Francia) e ha ricevuto le onorificenze dell'Architectural League di New York, la laurea honoris causa in design al Politecnico di Milano e all'Ecole Normale Supérieure de Cachan, l’European Prize for Architecture Awards nel 2014.
Attraverso le parole di Fulvio Irace:
Visti nel loro insieme, mobili e architetture, disegni, decori e parole di Mendini trasudano questo tipo di Sehnsucht che la critica letteraria ha attribuito storicamente alla sensibilità romantica: un desiderio mai soddisfatto, unito all’aspirazione a una comunione con la natura e con il mondo di tipo percettivo ed esistenziale, più che politico o sociale. Uno sguardo malinconico che proietta sulla realtà una visione crepuscolare e autobiografica che alimenta un personale, silenzioso culto della memoria.»
- Estremi cronologici:
- 1931-2019
- Ruolo professionale:
- architetto, designer, artista