Un mattino dentro un soundscape, con Alva Noto

L’architettura può essere fatta di suono: ce lo ha raccontato l’artista crossmediale Carsten Nicolai – Alva Noto nella sua personalità sonora – parlando di identità nello spazio digitale contemporaneo, di saperi frammentati da riunire con le emozioni, e degli anni con Ryūichi Sakamoto.

“Al momento, sto cercando di unire due personalità in una sola, di portare tutto a stare insieme”. 
Carsten Nicolai è un artista la cui pratica abbraccia un vastissimo spettro di interessi: gli ultimi tre decenni sono infatti costellati di sue sculture, dipinti, installazioni spaziali e sonore. Come Alva Noto, però, è anche uno dei nomi di riferimento assoluti della musica contemporanea, che troviamo impegnato in performance live come in produzioni di studio e colonne sonore, sperimentazioni e collaborazioni come quella quasi ventennale con Ryūichi Sakamoto. Questa sua sfida continua ai confini fissati di generi, discipline e ambiti creativi – alla condizione contemporanea di frammentazione dei saperi e di commercializzazione delle relazioni, a volerla dire tutta – passa spesso per lo spazio come mezzo di espressione e di intervento: da operazioni di ricerca a partnership come quella con Marsèll – la curatela per le collezioni 2023 con Transmitter: Receiver, il “sismografo multi-sensoriale” che capta la varietà percettiva dell'universo che abitiamo – molti dei suoi lavori recenti cercano di definire spazi alternativi a quelli cui siamo abituati oggi, architetture fatte di suono che l’artista chiama soundscapes. Non è quindi troppo sorprendente venire a sapere che Nicolai ha studiato da architetto, specializzandosi in progettazione del paesaggio a Dresda, nell’allora Germania dell’Est (“Domus è stata molto importante per me, per informarmi sulle tendenze architettoniche contemporanee e per affrancarmi dal mio isolamento”, ha tenuto a raccontarci fin dall’inizio. Dichiarazioni simili le avevamo raccolte anche da figure come John Pawson, per esempio).

Soundscapes

“Quando progetto un soundscape, un paesaggio sonoro” esordisce Nicolai, per portarci direttamente al cuore di un suo spazio percettivo alternativo, “il suono è allo stesso tempo architettura: con il suono si definisce lo spazio, forse in modo invisibile, ma allo stesso modo in cui si definiscono gli elementi architettonici e si creano gli spazi sociali. Le onde sonore sono per me materiali da costruzione, e anche il modo in cui tratto il suono è concettualmente basato sull’architettura: costruisco strutture prive di gravità”. Una libertà assoluta e invisibile, ci dice Nicolai, che crea spazi complessi. “Molti dei miei lavori si basano su onde sinusoidali molto semplici. Quando posiziono un diffusore audio in un ambiente qualsiasi, questo avrà un riflesso nello spazio, ma se ho più diffusori, posso calibrare e posizionare le onde in modo che creino una sorta di paesaggio, valli e montagne, fatte dall’amplificarsi e dell’annullarsi dei suoni. Vedo gli impulsi e le strutture ritmiche come ciò che gli architetti considererebbero elementi costruttivi statici, colonne e travi: penso sempre prima a creare un paesaggio, poi a costruirci dentro, collocando alcuni elementi iconici che chiamo solitaires o uniques, strutture che conferiscono un’autenticità, un carattere specifico al pezzo”.

Sakamoto, le emozioni e un “linguaggio universale”

Oltre a questo tipo di caractère, come l’Encyclopédie di Diderot avrebbe chiamato l’identità incarnata delle architetture nel XVIII secolo, questi spazi che si materializzano a metà tra la sfera fisica e quella emotiva stanno assumendo le caratteristiche di un manifesto architettonico: ma che posto rimane per le emozioni, in questo tipo di progetti? “Il suono è un tipo di linguaggio universale”, ci dice Nicolai. “Tutti capiscono i suoni, non importa da quale tipo di contesto, culturale o linguistico provengano, e credo che questo sia uno dei maggiori vantaggi quando si lavora con il suono, che questo sia il bello del suono, che la nostra percezione del suono non ha un livello intellettuale. Lavora in modo diretto. Ci parla direttamente senza alcun calcolo intellettuale intermedio, come l’odore, la temperatura o l’atmosfera”. 

Il suono è un tipo di linguaggio universale. Tutti capiscono i suoni, non importa da quale tipo di contesto, culturale o linguistico provengano, e credo che [...] questo sia il bello del suono, che la nostra percezione del suono non ha un livello intellettuale. Lavora in modo diretto.

Carsten Nicolai

Una vasta gamma di emozioni trova spazio nella costruzione dei paesaggi sonori di Nicolai, ma l’interazione e la collaborazione sono state fondamentali per raggiungere tale consapevolezza creativa, come è successo con il musicista giapponese Ryūichi Sakamoto, altro esploratore delle ibridazioni tra generi, mondi e tecniche solo apparentemente separati: “La collaborazione con Ryūichi (Sakamoto) è stata davvero unica: siamo usciti entrambi dalla nostra comfort zone, in una situazione di collaborazione in cui abbiamo imparato molto l’uno dall’altro. Abbiamo potuto creare qualcosa che normalmente non saremmo stati in grado di creare da soli. Ho lasciato da parte la paura per gli armonici e le melodie, ho visto la bellezza e le possibilità di questi elementi emotivi nella musica, e questo è qualcosa che Ryūichi mi ha insegnato, sfidandomi apertamente sul terreno del suono, cercando suoni diversi che non si adattassero a nessun genere musicale, riconoscendo l’aspetto tecnico del nostro mondo, ma allo stesso tempo, connettendoci alle emozioni, mettendo il pianoforte acustico o lo strumento classico in simbiosi con l’elettronica e creando qualcosa di nuovo: il primo album ha 24 anni adesso, ma non suona in nessun modo vecchio”.

Spazio, tempo e architettura

Componente dopo componente, mentre continuiamo a parlare, ha preso forma un manifesto architettonico implicito; quindi il tempo doveva essere la componente successiva in lista: “La maggior parte delle scuole di architettura insegnano l’architettura tridimensionale, ma io penso che l’elemento più importante in architettura sia in realtà la quarta dimensione, l’aspetto del tempo, quello che questa dimensione può costruire socialmente; con il suono, infatti, posso costruire spazi tridimensionali basati sul tempo, che si producono anche socialmente ed emotivamente. Questo è il motivo per cui a volte l’architettura non è necessariamente bella in termini estetici, ma crea ambienti sociali incredibili. Mi ci sono voluti anni per capirlo, studiando, scrivendo e anche insegnando”. Il lavoro di Nicolai, che insegna anche Time based media all’Accademia di Belle Arti di Dresda, si sviluppa lungo sequenze temporali non lineari, come dimostra Transmitter: Receiver, la sua recente installazione per Marsèll a Milano: “Questo oggetto era in realtà un’idea molto vecchia che avevo avuto 20 anni fa, ma è l’anno scorso che ho deciso di realizzarlo, con tutte le possibilità che ho ora, con i computer, le tecnologie, i sensori, la conoscenza proveniente dai lavori precedenti; questo lavoro si è cristallizzato – mi piace la parola ‘cristallizzato’ – vent’anni dopo”.

È un aspetto che potrebbe sembrare in contrasto con lo sviluppo lineare tipico del lavoro architettonico, ma Nicolai non è affatto estraneo alla riflessione e alla critica d’architettura, fin dai primi esperimenti sviluppati con Enric Miralles per la sua città natale, e c’è un aspetto specifico dell’architettura che per lui fa da fonte di ispirazione inesauribile, e ha ben poco a che fare con la linearità: “Trovo che gli architetti siano interessanti più che altro per l’aspetto concettuale del loro lavoro” ci dice infatti.

La maggior parte delle scuole di architettura insegnano l’architettura tridimensionale, ma io penso che l’elemento più importante in architettura sia in realtà la quarta dimensione, l’aspetto del tempo [...]; con il suono posso costruire spazi tridimensionali basati sul tempo, che si producono anche socialmente ed emotivamente.

Carsten Nicolai

“Quando eravamo giovani, c’erano molti architetti che fondamentalmente facevano solo piante, assolutamente non destinate alla costruzione, come Daniel Liebeskind o Coop Himmelb(l)au. Il postmodernismo non creava necessariamente edifici belli, ma all’inizio i concetti erano molto interessanti, riguardo a come rendere l’architettura più iconica e identificata. All’inizio ho seguito Hans Hollein, poi Zaha Hadid, Rem Koolhaas, più tardi Sejima: l’invisibilità dell’architettura era ciò che amavo. E un altro architetto che ha ispirato uno dei miei primi album prodotti come Alva Noto, intitolato Prototypes, è stato Walter Pichler. Sapete, compongo ancora abbastanza alla vecchia maniera, scrivendo dei concept e cercando una rappresentazione visiva per memorizzarli, per memorizzare il tipo di mondo che voglio esprimere. E certi oggetti di Pichler, anch’essi chiamati Prototypes, avevano un aspetto molto spoglio, quasi tecnico, di plastica o di alluminio, e così sono diventati il riferimento di cui in quel momento avevo bisogno”.

Creare qualcosa che finalmente non sia specializzato

Più si continua a parlare, più il manifesto implicito per l’architettura in cui si è evoluta la conversazione continua ad espandersi verso la dimensione di un manifesto valido per tutte le pratiche: quella di Nicolai si sta infatti posizionando sempre più su un approccio interdisciplinare, che nasce dalla tipologia stessa delle sue opere: “All’inizio mi concentravo solo sulla cosiddetta stabilità elaborata degli oggetti – sculture concettuali, a volte pittura, fotografia – adesso invece sento più forte l’esigenza di creare ambienti completi, che abbiano una loro complessità: li chiamo Atmosfere. Per la Haus der Kunst di Monaco ho creato una situazione che non si limitava a definire uno spazio, o a mostrare degli oggetti: creava un’atmosfera completa, conteneva anche suoni e odori, un ambiente che può essere visto come una scenografia. E devo dire che questo mio interesse infatti deriva dall’aver creato colonne sonore per alcuni film. E i lavori su scala più piccola, come quello che ho fatto con Marsèll, o i miei lavori video, cinematografici, persino le colonne sonore per altri, come The Revenant o la collaborazione con Gucci, sono tutti elementi di questa idea”. Quando la musica è entrata a far parte di questo panorama, inoltre, è nata anche l'esigenza di una seconda identità, ed è allora che è nato Alva Noto. E ora è tempo di unire queste due personalità in una sola, di portare tutto a stare insieme, ci dice Nicolai/Noto. “Unire questi mondi è fondamentale, perché sappiamo tutti che il mondo dell’architettura è un mondo a sé stante, così come lo sono l’arte e la musica, che sono praticamente separati: per me invece appartengono profondamente l’uno all’altro. Voglio dire, il movimento della danza, l’identità, le emozioni, l’architettura, gli odori atmosferici, sono tutti appartenenti l’uno all’altro. Siamo esseri umani, tutti percepiamo questo tipo di elementi. Quindi perché non provare a creare qualcosa che finalmente non sia specializzato?”

Sappiamo tutti che il mondo dell’architettura è un mondo a sé stante, così come lo sono l’arte e la musica, che sono praticamente separati: per me invece appartengono profondamente l’uno all’altro. [...] Siamo esseri umani, tutti percepiamo questo tipo di elementi. Quindi perché non provare a creare qualcosa che finalmente non sia specializzato?

Carsten Nicolai

Identità e spazio digitale

Non abbiamo potuto fare a meno di chiederci se questi propositi fatti di confondersi e mescolarsi possano risultare utopici, in uno scenario contemporaneo di radicalizzazione delle identità, alimentato peraltro dalla virata brusca delle relazioni verso gli spazi digitali, “Non credo che dal punto di vista della tecnologia e della comunicazione stiamo assistendo ad una rivoluzione, non è questo il futuro” risponde invece Nicolai, “le relazioni non sono diverse da quelle che si intessevano 2-300 anni fa, i fondamenti della comunicazione umana, tra le persone, non stanno cambiando così rapidamente come invece fa la tecnologia. E sono molto dubbioso sui social media. (Ti piace tiktok? Non ho tiktok.) Sono una droga che provoca dipendenza, che consuma tempo e personalità, inutili perché allontanano le persone dalla loro creatività, dalla loro identità, dal loro vero ambiente sociale. Certo, questo buco nero completamente commercializzato, temuto dai suoi stessi creatori – che lo hanno raccontato in The social dilemma – potrebbe essere destinato ad esaurirsi con noi – ho quattro figli tutti tra i 12 e i 20 anni, e non sono interessati ai social media – e funziona in qualche modo come funzionavano gli anni in cui siamo cresciuti con la televisione, ma in realtà è più complesso, è impossibile da evitare: sono cresciuto durante la guerra fredda, sotto il controllo dello Stato socialista, e ora vedo che il nostro Stato globale contemporaneo è molto più controllato. All’epoca, un’alternativa c’era sempre: potevo lasciare quel mondo, quei Paesi, o aspettare che crollassero; ora invece abbiamo solo questo mondo”.

Identità multiple: Alva Noto e gli altri

Anche questa posizione fa parte di una complessa elaborazione che Nicolai – o Noto – e la loro generazione hanno portato avanti sul tema dell’identità, propria o collettiva, ed è per questo che abbiamo voluto chiudere il nostro scambio ricordando come è nato l’alias Alva Noto: “Quando ho fondato la mia prima etichetta, sapevo di voler creare un nome d’arte: allora stavo viaggiando per la Sicilia e ho visto il cartello stradale per Noto, mi piaceva la topografia di quella città e il modo in cui si sposava con il nome dell’etichetta NoTon, che in tedesco significa ‘nessun suono’, ma suona anche come ‘not on’, ‘non acceso’. Alva è arrivato dopo, dall’insegna al neon di un piccolo bar vicino alla casa in cui vivevo a New York: ho scoperto poi in seguito che era il secondo nome di Edison. In questo modo ho potuto creare un’identità di genere neutra, che non fosse al 100% maschile o femminile, e questa cosa era davvero importante per me, visto che all’inizio la musica elettronica era pesantemente dominata da uomini. Ma se poi si guarda alla storia dell’arte negli anni ‘20, o anche fine ‘60 e ‘70, era comune che gli artisti si creassero nomi d’arte; Karl Schmidt-Rottluff, il famoso espressionista: siamo cresciuti nella stessa zona, e Rottluff era il nome del paese dov’era nato. Oppure A.R. Penck, pittore, disegnatore e musicista tedesco degli anni ‘80: lui cercava in realtà di nascondere la sua vera identità, perché faceva mostre nell’Ovest mentre invece viveva nell’Est. Quindi sono cresciuto circondato da artisti che usavano pseudonimi, per me è stato naturale creare un’identità diversa, un nome diverso”.