Da una veloce ricerca YouTube “icc berlin” sono due i video che colpiscono l’attenzione. Il primo, Congress Centre Berlin opens, si apre con alcune riprese dalla strada, il guscio biancastro dell’edificio che si staglia sopra il paesaggio di cemento e fumi e automobili che scorrono veloci, come un pachiderma a riposo mentre tutto intorno si muove concitatamente. Le immagini passano poi all’interno, è il giorno dell’inaugurazione, il 2 aprile 1979, uomini in smoking e signore in abito da sera sciamano sulla moquette a pattern geometrico nella lunga sala centrale al piano terra; li ritroviamo tra i tavoli del buffet, dove approcciano un piatto di spaghetti, avvicinano una zuppa alle labbra mangiandola in piedi con difficoltà. Ci sono il presidente della Germania Ovest Walter Scheel e l’attore Harald Juhnke, accorsi per l’apertura del più grande centro congressi del mondo.
Il destino dell’ICC, l’astronave che sembra troppo anche per Berlino
Costruito come simbolo dell’Occidente nella città del Muro, chiuso per quasi dieci anni, il gigantesco e futuristico centro congressi è oggi in cerca di un futuro.
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- Alessandro Scarano
- 19 dicembre 2021
- Berlino, Germania
- Ralf Schüler, Ursulina Schüler-Witte
- 24.000 mq
- Centro Congressi Internazionale
- 1979
L’altro video è una porzione del primo tempo di The Apple, un musical del 1980 troppo brutto anche per diventare un cult e girato quasi interamente all’interno dell’ICC. Tra improbabili coreografie e canti in costumi sgargianti da b-movie di fine anni Settanta, l’unica protagonista credibile è la futuristica architettura d’interni dell’ICC. Sembrano scenografie costruite ad hoc in qualche studio dell’Europa continentale per replicare gli interior sci-fi di Guerre Stellari o Battlestar Galactica. Invece è semplicemente lo styling del più grande centro congressi del pianeta, aperto da appena un anno.
Courtesy ©Andreas Gehrke
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Courtesy Nuno Cera
Courtesy Nuno Cera
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Courtesy Eike Walkenhorst
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L’edificio raccontato su Domus
Nel 1979, Domus dedica all’inaugurazione dell’Internationales Congress Centrum un lungo articolo sul numero 597. Gerhard Ullmann descrive l’ICC come “l’edificio dei superlativi”, snocciolando una sequenza di dati che inquadrano il faraonico progetto promosso dalla Germania Federale: “850 milioni di marchi spesi per la costruzione (370 miliardi di lire); 125.000 mc di cemento armato consumati; 5.200 tonnellate di acciaio usate per la struttura del tetto; più di 1.000 operai e tecnici impiegati; 24.000 mq di superficie utile: posto per 20.000 persone contemporaneamente, di cui 5.000 e 2.000 in due gigantesche sale pluriusi adiacenti”.
“Costruito tra il 1973 e il 1979 su progetto di Ralf Schüler and Ursulina Schüler-Witte, il Centro Congressi Internazionale è una delle costruzioni più caratteristiche dell’epoca, per Berlino Ovest”, spiega a Domus Christoph Rauhut, che dirige l’ufficio per la tutela dei monumenti dello stato di Berlino. “Nel suo ruolo di sede di convention internazionali, rappresentava l’orientamento globale di questa città isolata nelle prime linee dell'Occidente”.
Lungo come tre campi da calcio, alto 40 metri e largo più del doppio, l’ICC è un’opera titanica composta non da un singolo edificio, ma da due, uno interno e uno esterno. Quest’ultimo poggia su otto pilastri, mentre il primo su due ranghi di tredici, dal diametro di due metri e mezzo ciascuno, i quali supportano altrettanti muri trasversali in cemento, “muri che devono resistere a grandissimi sforzi: sostengono il piano d'ingresso, il piano del foyer con varie sale e il corpo del palcoscenico con le due sale” – come scrive sempre su Domus 597 il meticoloso Ullmann.
La riaccensione del centro congressi
Gigantesco e costosissimo da mantenere, l’epoca d’oro dell’ICC non è durata molto e dall’inizio del nuovo millennio il centro è stato usato sempre meno, tanto che si sono rincorse sempre più frequentemente le voci di una possibile demolizione. Nel 2014 è stato chiuso per fare spazio ai lavori di rimozione dell’amianto. Dal 2019 è vincolato: “la sua protezione è un tributo alla natura eccezionale dell’edificio e documenta anche il grande interesse pubblico nella sua preservazione”, dice ancora Cristoph Rauhut, che questo agosto, in una lunga e accorata intervista al quotidiano Tagesspiegel, ha menzionato questa “icona dell’architettura high-tech”, tra i tesori berlinesi da preservare.
Era iniziato da poco ottobre quando “The sun machine is coming down”, una dieci giorni di “arte nuova e adattata da performance, circo, musica, cinema e installazione”, ha riacceso dopo quasi una decade di buio le luci dell’ICC. Letteralmente. È infatti tornato a risplendere l’iconico sistema d’illuminazione del centro, con le sue serpentine di neon colorati. “Il visitatore è subito immesso in un sistema di segnali luminosi – fasce rosse e blu, pannelli operati elettronicamente, monitors – segnali che gli mostrano la strada per luoghi delle manifestazioni ai due piani inferiori e infine alle due sale al piano superiore”, scriveva Ullmann su Domus nel ’79.
L’ispirazione del sistema è anatomica, con il blu e il rosso derivati dai colori della circolazione sanguigna, in un percorso che si dirama all’ingresso, oltrepassato il foyer, spiega Frank Oehring, l’artista che fu artefice delle luci. Lo incontro sotto alla grande scultura sospesa che coincide con la “testa” di questo circuito di smistamento.
Formatosi come pittore e appassionato di medicina, Oehring fu chiamato ad applicare la sua arte a questo luogo, perché orientasse visitatori che arrivavano da ogni angolo del mondo. Escogitò un sistema funzionale e immediato, basato su mappe di colori e tabelloni che facevano circolare in modo razionale chiunque si muovesse all’interno del corpo del centro congressi, aumentando con una metafora organica la narrazione di questo gigantesco scheletro.
Le serpentine di neon colorati, le cifre luminose e i tabelloni tutt’ora funzionanti caratterizzano l’identità visiva di questo incredibile centro congressi, con un impatto talmente contemporaneo che molti avventori della Sun Machine avranno sicuramente pensato che il sistema luminoso fosse un’opera d’arte nuova e installata appositamente per la kermesse.
Oehring come tanti tedeschi della sua generazione capisce l’inglese ma preferisce parlare in tedesco. Prima di salutarci, dopo una lunga passeggiata su e giù per l’ICC, mi prende da parte, indica con un gesto le opere d’arte e le persone intorno, e si confida: “This is big for me”, dice. Il sistema circolatorio dell’ICC, anche solo per qualche giorno, ha ripreso a pompare.
Dall’ICC all’ICCC
“The Sun Machine is coming down” è l’episodio durato solo qualche giorno di un sogno più grande, quello di dare una nuova vita all’ICC. Di mezzo ci sono la crescita vertiginosa di Berlino negli ultimi anni, la seconda vita come incubatore di startup del non lontanissimo ex-aeroporto di Tegel e il vincolo che protegge di fatto l’edificio, la cui esistenza come centro congressi è improbabile nell’era del Covid-19 e degli incontri su Zoom. Secondo Silke Neumann di Bureau N, l’agenzia berlinese che ha invitato Domus a visitare il centro durante i giorni della riapertura, è arrivato il tempo per accelerare un progetto di riqualificazione che risale alla prima metà dello scorso decennio. Aggiungendo una “C” al nome originale.
Courtesy Something Fantastic
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Courtesy Schnepp Renou
Courtesy Schnepp Renou
Courtesy Schnepp Renou
Courtesy Schnepp Renou
Courtesy Schnepp Renou
Courtesy Schnepp Renou
Courtesy Schnepp Renou
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Courtesy Eike Walkenhorst
Courtesy Eike Walkenhorst
Courtesy Eike Walkenhorst
Courtesy Eike Walkenhorst
Courtesy Eike Walkenhorst
“L’idea dell’ICCC, centro internazionale per la cultura contemporanea, nasce nel 2014, quando lo stato di Berlino fa una gara per sviluppare un nuovo concetto d’uso, che includa rigenerazione del luogo e finanziamento per il sito storico”, racconta Neumann. “Il nostro cliente era un investitore privato con una visione, quella di trasformare questo edificio in un hub culturale”. Un progetto pensato per avere un grande impatto su Berlino e al tempo stesso richiamo a livello internazionale.
Unicità dell’ICC
La temporanea riapertura dell’ICC è anche l’occasione per incontrare Heinz Oeter, che collaborò alla parte ingegneristica della struttura, dopo avere già lavorato con Mies Van Der Rohe alla Neue Nationalgalerie. Ancora energico e combattivo nonostante gli anni, Oeter è un grande sostenitore della necessità di dare all’ICC un futuro e appena ci sediamo tira fuori un denso fascicoletto che ha scritto a riguardo.
Guardando al passato, Oeter sottolinea con decisione il ruolo cruciale che ebbe Ralf Schüler nel progetto, che firmò insieme a Ursulina Schüler-Mitte, ancora in vita. Anch’egli ingegnere di formazione, Schüler era per Oeter “un talento naturale”, la cui passione per il design dei mezzi di trasporto – degli aerei soprattutto – è riflessa appieno nella struttura. “Era un visionario”, dichiara Oeter, che spiega poi come la costruzione del centro congressi, che coinvolse un team di oltre 100 persone, può anche essere raccontata come l’impresa di un gruppo di ragazzi che si trovarono in mano un progetto gigantesco. E che non sarebbe andato in porto senza il carisma e la abnegazione di Schüler. “Mies era un diplomatico nato, parlava con tutti, la qualità di Schüler era nel condurre le cose”, dice Oeter quando gli chiedo un paragone tra i due.
Tutto iniziò a fine anni Sessanta, con il concorso per un auditorium che doveva ospitare meno di 5000 persone. Ma questo era un luogo destinato a diventare un simbolo, uno statement ideologico, e l’ingombro di quel primo centro congressi nel corso degli anni crebbe fino a quadruplicare per capienza. Per trovare un paragone a cui ispirarsi, i progettisti andarono a Mosca, perché a ovest del Muro non c’era nulla del genere. Ma fu la visionarietà di Schüler a rendere l’ICC unico. Con soluzioni magistrali come la cosiddetta Sala 2, dove “per liberare tutta la superficie del pavimento, è possibile ribaltare la tribuna con duemila sedili e sollevarla contro il soffitto”, scriveva Ullmann su Domus. Inoltre, la stessa sala poteva essere messa in continuità con la più grande Sala 1, creando un palcoscenico centrale per 7000 spettatori.
Fu proprio lì che suonò l’orchestra durante le celebrazioni per l’apertura dell’ICC. I ragazzi dello zoo di Berlino era stato pubblicato da un anno circa, e qualche mese più tardi Bowie avrebbe chiuso con Lodger la cosiddetta trilogia berlinese. L’Urss si preparava a invadere l’Afghanistan, un evento di portata epocale giocato sullo scacchiere della Guerra Fredda. Quello stesso scacchiere su cui l’ICC atterrava come il simbolo del potere economico dell’Occidente da sbandierare in faccia al Muro, un’astronave precipitata nella capitale spaccata in due.
Gerhard Ullmann, scrivendone per Domus, liquidò l’ICC come un pezzo di anti-architettura, “un oggetto d’uso impregnato di tecnica e reso imponente dallo ‘styling’”, un edificio “anonimo e tecnocratico”, ma probabilmente mancò di lungimiranza. Oggi ne apprezziamo gli interni di cui è cambiato pochissimo, calpestiamo le stessa moquette che si vede nel video dell’inaugurazione, restiamo incantati davanti a dettagli un mondo che non c’è più, come l’apparato dei posaceneri integrati nei bagni, il sistema di monitor in corrispondenza del “cervello” all’ingresso, scorriamo davanti alle enormi finestre che si affacciano silenziose su strade e ferrovie. Venendo inesorabilmente trascinati indietro nel tempo, quando con la sua inaugurazione il centro congressi inaugurò l’ultimo ventennio della Guerra Fredda: una pagina della storia che l’ICC racconta come pochissimi altri artefatti ancora su questo pianeta sono in grado di fare. Già solo per questo, difficilmente Berlino potrebbe farne a meno. Ma ci auguriamo ovviamente che lo attenda un futuro radioso quanto le sue ambizioni.
Immagine in apertura: Internationales Congress Centrum (ICC), Ralf Schüler e Ursulina Schüler-Witte, 1979, Berlino, Germania. Foto courtesy of Nuno Cera.