Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1060, settembre 2021.
Progettare una scuola aperta per imparare a vivere insieme
Quattro architetti discutono delle possibili attitudini progettuali mirate all’insegnamento.
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- Giulia Ricci
- 01 ottobre 2021
- Driss Kettani Architecte, Casablanca, Marocco
- Studio Muoto, Parigi, Francia
- Studio Anna Heringer, Laufen, Germania
- Karim Nader Studio Beirut, Libano
Yves Moreau: La tipologia dell’edificio scolastico varia profondamente a seconda del Paese. Nella sua forma costruita incarna il modo stesso di concepire il ruolo dell’istituzione e il suorapporto con la società.
In Francia, per esempio, c’è una forte tradizione di scuolare pubblicana, che si traduce spesso in strutture chiuse. All’istituzione scolasticav iene assegnato un ruolo importante nella costruzione e nel mantenimento dello Stato repubblicano, ma questo influenza fortemente i programmi educativi.
Resta il fondamento della cosa pubblica, il terreno comune della società democratica, che si basa sui valori di uguaglianza anche tra i bambini. Attualmente, stiamo lavorando a unconcorso per una scuola in Svizzera, dove alcuni spazi sono progettati peraprirsi al mondo esterno. Se c’è un cortile, per esempio, sarà accessibile anche a chi non fa parte della comunità scolastica. In questo caso, l’edificio didattico acquisisce, almeno in parte, le qualità di uno spazio pubblico
Driss Kettani: Oggi i metodi d’insegnamento stanno attraversando un’importante fase di cambiamento, tuttavia i programmi funzionali richiesti dalle committenze sono spesso ancorati a modelli del passato. Come architetto, ritengo importante reinterpretare la rigidità dei vecchi schemi funzionali, proponendo soluzioni che rendano gli spazi dell’apprendimento flessibili, apertie di qualità.
Esiste, inoltre, una dimensione solenne e quasi mistica delle architetture scolastiche che io e i mei soci di studio, Saad El Kabbaj e Mohamed Amine Siana, cerchiamo di trasferire nei nostri progetti. Senza dimenticare, però, che tali architetture devono trasmettere leggerezza e gioia: dalla configurazione delle aree comuni fino al rapporto con la città.
Il nostro approccio progettuale tende a coniugare l’architettura vernacolare e l’esperienza del Moderno in Marocco: mi riferisco, in particolare, all’opera di Jean-François Zevaco.
Trovo poi che il richiamo a spazi e materiali tradizionali possa diffondere il senso di apparenza di un edificio alla comunità e attivarne l’integrazione al contesto.
Anna Heringer: Ripensare la relazione dell’uomo con l’ambiente vuole dire anche instaurare un rapporto con il contesto.
L’uso dei materiali locali, come Driss giustamente sottolinea, è imprescindibile quando si vuole realizzare un progetto che risponda alle specificità di un luogo.
Quando si lavora per la comunità, c’è un vantaggio significativo: la familiarità della manodopera locale con la tradizione costruttiva e con un certo tipo di espressione spaziale e materica, che avvicina l’edificio a chi lo abiterà.
Karim Nader: In molte zone del mondo le scuole stanno diventando organismi più complessi, nonostante le difficoltà create dalla pandemia. In un certo senso, mi ritrovo talvolta “contro la scuola” o, meglio, contro il modo in cui abbiamo concepito finora l’istruzione, separando l’insegnamento dall’esperienza diretta, che spesso si traduce architettonicamente in strutture rigide.
DK: Credo che la reinterpretazione dell’architettura vernacolare possaessere d’aiuto nello spezzare una certa rigidità, pur in un edificio istituzionale.
Nel 2011, abbiamo completato l’École Supérieure de Technologie de Guelmim, che rientra in un programma nazionale di potenziamento dell’istruzione superiore nel Sud del Marocco. I diversi edifici sono disposti lungo un asse nord-sude collegati da un percorso coperto che ne razionalizza la distribuzione conferendo un certo carattere teatrale al complesso. Il campus evoca due principidi organizzazione spaziale dell’architettura tradizionale marocchina, quello del riade quello della medina: se il richiamo ai giardini interni marocchini è evidente, è inoltre possibile ritrovare una certa compresenza di scale differenti, che si adattano alle funzioni come nelle città antiche.
Quando si lavora per la comunità, c’è un vantaggio significativo: la familiarità della manodopera locale con la tradizione costruttiva e con un certo tipo di espressione spaziale e materica, che avvicina l’edificio a chi lo abiterà.
YM: In Francia, ci confrontiamo spesso con norme stringenti che limitano il nostro raggio d’azione nella progettazione degli spazi. Questo vale in particolare proprio per le scuole.
Nel gruppo scolastico a Boulogne-Billancourt realizzato nel 2018 sul sito di una ex fabbrica Renault, integrare una serie di funzioni aperte al pubblico è stata una sfida, risolta poi attraverso una forte dialettica tra chiusura e apertura. Come concepire allora edifici chiusi e aperti allo stesso tempo, neutri ma anche aperti alle differenze? Questa è la domanda, a cui dobbiamo sempre rispondere, dato che noi concepiamo edifici educativi pubblici.
KN: Recentemente, abbiamo avuto occasione di ragionare su questo tema attraverso il progetto “10 Schools repair”, commissionato dalla Swiss Agency for Development and Cooperation. Si tratta di un’azione, coordinata con il Ministero dell’Istruzione del Libano, per rendere nuovamente operative dieci strutture nell’area ovest della capitale, in seguito all’esplosione dello scorso 4 agosto nel porto di Beirut che aveva generato un’ingente frattura nel multiforme tessuto della città. In questo contesto, le scuole sono state fra le strutture più colpite.
Quelle con cui ci siamo confrontati erano molto diverse fra loro: da un lato ci siamo trovati di fronte a un patrimonio del XIX secolo, fra cui anche ex residenze; dall’altro, edifici del Moderno, risalenti agli anni Cinquanta. Il progetto di recupero contemplava tempistiche e budget estremamente ristretti.
Ottimizzando al massimo questi limiti in ciascun intervento, soprattutto nel caso degli edifici più recenti, abbiamo avuto modo d’inserire una serie di nuove funzioni aprendo il programma della scuola alla città, attraverso biblioteche, orti urbani e attività laboratoriali, pensati per includere anche i residenti del quartiere.
AH: Nel mio lavoro, mi trovo vicina a una pratica quasi artigianale dell’architettura. Questo fa sì che il mio studio sia molto attivo all’estero. Forse, proprio per questo mio approccio, cerco quelle occasioni in cui esprimere al meglio la mia fiducia nell’architettura come strumento per migliorare le condizioni di vita degli individui e delle comunità.
Le nostre esperienze recenti sono quelle del campus di Tatale in Ghana e, qualche anno fa, della METI School in Bangladesh.
In quest’ultimo caso, gli alunni sono stati anche coinvolti nella costruzione della propria scuola, con modalità difficilmente attuabili in Europa.
Le cavità nella muratura, in cui i bambini si ritrovano circondati da uno spazio simile a un grembo, nascono da un grande desiderio di sperimentazione. Per noi, il cantiere è un momento di riflessione e costruzione collettiva in cui ciascuno può contemporaneamente
imparare e insegnare, in un processo di learning-by-doing .
Imparare a costruire fa scaturire negli individui un senso di indipendenza, arricchendo una comunità di nuove prospettive, anche economiche, mentre la progettazione partecipata degli spazi genera senso di identità. Se vogliamo, il cantiere stesso è, a suo modo, una scuola.