Nell’editoriale di Domus 1066, Jean Nouvel scriveva che le architetture, come gli esseri viventi, sono troppo spesso irresponsabilmente abbandonate, dimenticate o sfruttate. Perché un’architettura duri negli anni, bisogna poterla conservare viva, per permetterle di adattarsi alle situazioni del momento. Orfane di gestioni lungimiranti, talvolta distratte o dormienti, queste architetture hanno dato volti civici a istituzioni e poteri, ospitato eventi simbolici e accolto le popolazioni locali, segnando epoche e immaginari collettivi.
Immaginando di tracciarne l’identikit, una serie di connotati risultano ricorrenti. Si tratta di manufatti dal forte carattere espressivo, in molti casi disegnati sui tavoli di celebri interpreti dell’architettura del Novecento, spesso destinati ad usi straordinari, e spesso testimoni di un cambiamento sociale che li ha inizialmente portati in auge per poi scaricarli una volta esaurita l’utilità, ovvero una volta scoccata la data di scadenza.
Guardandoli in un ordine cronologico, affiora un itinerario attraverso alcune tappe fondamentali della cultura architettonica italiana, dal razionalismo degli anni Trenta al Brutalismo degli anni Sessanta. Il sogno di plasmare la società del futuro con le infinite possibilità espressive offerte dalle colate in calcestruzzo si infrange con l’amara scoperta di un’imprevista e acerba deperibilità del materiale. Le cause del declino annoverano anche cambiamenti strutturali nei modi di intendere la società e abitare lo spazio, che variano dall’organizzazione delle istituzioni pubbliche all’evoluzione degli standard edilizi, dal disincanto seguito a scommesse troppo azzardate all’inadeguatezza delle condizioni al contorno. L’elenco potrebbe continuare per ricondurre, in definitiva, ad una mal posta fiducia nella capacità di rinascere oltre il progetto iniziale, come la società preindustriale ha invece ripetutamente fatto nel corso dei secoli.
Di luoghi abbandonati il Belpaese è pieno, ed è sufficiente percorrere una superstrada per imbattersi, in scheletri di cemento, pareti mangiate dall’edera, grandi contenitori più o meno devastati, esiti di traumi politico-sociali che hanno portato a precoci abbandoni. In alcuni casi, sono spazi avvolti dall’alone del mistero tipico dei luoghi interdetti al pubblico, che, come dimostra il pullulare sul web di pagine dedicate e del trend dell'urbex, alimentano le fantasie di chi ci passa accanto o suscitano l’irrefrenabile propensione a una loro archeologica riscoperta. In altri, diventano l’habitat di fortuna di gruppi emarginati o addirittura il teatro di discariche a cielo aperto. Cosa resta oggi di quegli edifici che la società non è riuscita a riassorbire nei propri cicli vitali?