Nel voluminoso catalogo della mostra inaugurata alla Triennale il 17 ottobre, insieme alle interviste che Mari ha rilasciato a Hans Ulrich Obrist, figurano una ventina di omaggi, che nelle intenzioni di Obrist contribuirebbero a restituire la multiformità della sua figura. Che Mari sia stato poliedrico e polivalente è certo. Io stesso nel fare il suo ritratto l’ho rappresentato con cinque diverse espressioni del volto.
Enzo Mari, filosofo della progettazione
Emilio Battisti racconta la figura di Mari tra politica e progetto, concentrandosi sugli anni Settanta, su Milano e sul ruolo della Galleria di Porta Ticinese.
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- Emilio Battisti
- 04 maggio 2021
Con lui ho avuto rapporti saltuari. Il primo in occasione dell’occupazione della XIV Triennale del 1968 di Giancarlo De Carlo sul Grande Numero. Occasione di cui mi fece memoria Lea Vergine, ma data la situazione assai movimentata in cui il contatto avvenne, non ne ho un chiaro ricordo. Ma l’anno successivo Mari mi chiese di scrivere un testo per un libretto dedicato ai suoi giochi per bambini anche con i contributi di Gillo Dorfles e Mariella Loriga, per il quale scrissi un breve saggio intitolato Design e ideologia nello strumento di gioco infantile.
Ricordo che si risentì moltissimo per il fatto che in un breve passo avevo fatto riferimento a Charles e Ray Eames, ai quali a mio parere si sarebbe ispirato per progettare alcuni dei suoi giochi. Intimidito dalla sua reazione, gli consegnai il testo dicendogli di farne ciò che voleva. Ho poi constatato che quelle poche righe erano state rimosse dal testo pubblicato. Questo fatto lasciò qualche dissapore tra noi ma continuai a seguire la sua attività e ho riflettuto sulla sua figura in occasione della mostra che si è inaugurata alla Galleria Milano lo scorso 29 settembre, remake puntuale di quella che si tenne il 9 aprile 1973 intitolata Falce e martello, tre modi in cui un artista può contribuire alla lotta di classe suscitando enorme scalpore. Edizioni O pubblicò un libretto di poche pagine in cui Mari descriveva in quattro punti e 12 lunghe note la sua posizione.
All’inaugurazione il pubblico discusse animatamente e la stessa sera fu proiettato il documentario Comitati politici – Testimonianze sulle lotte operaie in Italia nella primavera del ’71, realizzato da Mari con alcuni studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Visitandola ho riflettuto sull’esperienza che Mari ha fatto negli anni Settanta frequentando la Galleria di Porta Ticinese come mi hanno raccontato la gallerista Gigliola Rovasino e l’amico Giovanni Rubino, artista napoletano arrivato a Milano alla fine degli anni ‘60 che, dal 1973 al 1978, collaborò con lei insieme a Gabriele Albanesi per organizzare una serie di eventi e di mostre di artisti impegnati politicamente. Penso che nel parlare di Mari in termini critici sia poco appropriato non indagare quell’esperienza che ha caratterizzato il suo excursus culturale e professionale. La mostra rieditata alla galleria Milano, contemporaneamente alla grande retrospettiva della Triennale, supplisce in parte alle omissioni. Come lui stesso racconta nella asciutta autobiografia 25 modi per piantare un chiodo: sessant’anni di idee e progetti per difendere un sogno, tutto ebbe origine dall’occupazione delle XIV Triennale, dedicata al Grande Numero e curata da Giancarlo De Carlo, a cui partecipò insieme a Francesco Leonetti. L’occupazione fu, come lui stesso testimonia, un corso accelerato di materialismo dialettico e cultura materiale. La contestazione del ’68 aveva spazzato via le profonde riflessioni sul design della precedente XIII Triennale dedicata al Tempo libero e soprattutto del numero monografico intitolato Design di Edilizia moderna di Vittorio Gregotti, alla redazione del quale ho avuto l’opportunità di partecipare. Memorabile esperienza.
Tutti hanno inviato testi colti e articolati ma nessuno accoglierà in concreto la mia proposta.
Per Mari, dall’occupazione della Triennale prese le mosse l’elaborazione teorica che lo portò alla formulazione di quella Proposta di comportamento enunciata con un testo assai farraginoso che Lea Vergine nel 1971 utilizzò per creare un numero speciale del Notiziario Arte Contemporanea NAC 8/9 al quale furono chiamati a dare il proprio contributo 52 intellettuali tra artisti, critici, poeti, filosofi, architetti e designer tra i quali Argan, Fo, Gregotti, Guttuso, Isgrò, Maldonado, Paci, Pivano, Portoghesi, Restany, Rossanda, Sottsass, Spinella, Zanuso e la stessa Lea Vergine. Di quei contributi Mari molti anni dopo scriverà: “Tutti hanno inviato testi colti e articolati ma nessuno accoglierà in concreto la mia proposta.” Per dare riscontro a quella attività culturale di forte valenza politica, si avvicinò alla Galleria di Porta Ticinese il cui programma era impostato su una Mostra incessante dedicata al Cile per documentare giorno per giorno la drammatica vicenda del colpo di stato.
Ma in quella galleria si svolgevano anche assemblee e dibattiti con la partecipazione di scrittori e critici tra i quali Mario Spinella, Gillo Dorfles, Vittorio Fagone, Paolo Volponi, Arturo Schwarz. Anche Achille Bonito Oliva era venuto da Roma per partecipare a un dibattito e all’inaugurazione di una mostra.
Ma in quella galleria si svolgevano anche assemblee e dibattiti con la partecipazione di scrittori e critici tra i quali Mario Spinella, Gillo Dorfles, Vittorio Fagone, Paolo Volponi, Arturo Schwarz. Anche Achille Bonito Oliva era venuto da Roma per partecipare a un dibattito e all’inaugurazione di una mostra. La frequentarono anche molti artisti come Emilio Tadini, Luciano Fabro, Gabriele Albanesi, Emilio Simonetti, Giò Pomodoro, Mauro Staccioli, Mino Ceretti e altri che vi esposero anche delle opere personali come la monumentale falce e martello di Giuseppe Spagnulo che occupava per intero il locale della galleria e un altrettanto voluminosa scultura dinamica di Nicola Carrino che, una volta scomposta, rendeva impraticabile il già angusto spazio.
Mari non fu particolarmente assiduo ma voleva di far evolvere la linea culturale della galleria per “andare oltre le proposte episodiche che venivano fuori dalle assemblee a favore di un’impostazione critica e programmatica in grado di collegarsi con i momenti reali della lotta di classe.” Si recò a Livorno con Rubino e altri per discutere con i rappresentanti del Circolo dei Portuali, come organizzare la Mostra incessante per il Cile. Mostra che si tenne nel maggio del ’77 anche alla Rotonda della Besana a Milano. Nel frattempo Lea Vergine, come corrispondente di Opus International contribuiva a farlo conoscere a livello internazionale riferendo anche delle iniziative della Galleria di Porta Ticinese e del progetto Mortedison di Giovanni Rubino con la spettacolare manifestazione del 1973, realizzata insieme al poeta Corrado Costa con gli operai di Porto Marghera in sciopero, issando un manichino crocifisso munito di maschera antigas per protestare contro la nocività del lavoro.
Mari immaginò di poter realizzare con la galleria di Porta Ticinese una scuola politica per orientare all’impegno militante gli artisti. Esperimento che dopo quattro mesi di preparativi fallì soprattutto a causa della sua intransigenza.
Ritengo comunque che si possa riconoscere che questa esperienza, rappresenti nel suo excursus una soglia, una coupure, prima della quale aveva svolto una attività di grande qualità artistica e professionale, priva di esplicite implicazioni politicoideologiche mentre successivamente vi affianca un impegno politico quasi da militante. A tal punto che a fine gennaio 1971 aveva assistito al Convegno Nazionale Operaio, che si tenne a Milano in un tendone da circo sui bastioni di Porta Volta, il cui dibattito si incentrò sulle finalità dei Comitati Politici - di quelli «già costituiti in alcune situazioni di punta delle lotte operaie», a Torino, a Porto Marghera, a Porto Torres - e della loro possibile estensione su tutto il territorio nazionale attraverso l’unificazione dei movimenti della sinistra extraparlamentare. Il video di cinquanta minuti che presentò in occasione della mostra del 1973 alla Galleria Milano ha fatto sicuramente riferimento ai temi trattati in quel convegno. Un gruppo di studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia si avvalsero della disponibilità di Enzo Mari che infatti nel proprio curriculum, riporta di avervi insegnato nel 1970. Per quanto riguarda la riedizione della mostra del ’73 l’opera Allegoria Studio per l’Anniversario, struttura in legno, 1954 – 1972 rappresenta uno degli elementi di maggior rilievo e la sua storia risulta assai complessa da interpretare anche se è opportuno tentare di farlo. Un primo interrogativo che è necessario porsi riguarda di quale Anniversario si tratti.
All’origine c’è lo studio preparatorio del 1954 che richiama un vessillo da portare in corteo come risulta anche dalla tempera dello stesso anno in cui figura come è stato effettivamente realizzato. Che possa essere stato realizzato nella ricorrenza del primo anniversario della morte di Stalin avvenuta il 5 marzo dell’anno precedente, risulta del tutto plausibile perché la falce e martello sovrastata dalla stella corrisponde proprio all’emblema che compare sulla bandiera rossa dell’URSS oltre che su quello del PCI realizzato da Guttuso.
È certo che Mari si è ispirato al particolare molto realistico della grande Croce ancorata sulla iconostasi della scena del Presepe di Greccio di Giotto che certamente ammirò ad Assisi in occasione del “modesto Grand Tour estivo” del 1951 che definisce come suo “viaggio d’iniziazione”. Particolare di estremo realismo antiretorico che mostra proprio il retro dipinto di rosso della croce con le sue strutture di irrigidimento, che spicca sullo sfondo scuro dell’interno della Porziuncola.
Il dettaglio a cui Mari si è ispirato figura, anche nella scena delle Storie dedicata a Girolamo che esamina le stimmate sul corpo di Francesco che giace morto all’interno della Porziuncola e rivela che quello rappresentato da Giotto è il Crocifisso di Santa Maria degli Angeli, croce sagomata dipinta da Giunta Pisano tra il 1230 e 1240 conservata nell’omonimo museo di Assisi.
A proposito di quest’opera è possibile fare supposizioni, soprattutto sull’evoluzione del suo significato per Mari nell’arco di tempo quasi ventennale in cui egli la sviluppa e la ripropone. Appare plausibile che egli abbia còlto l’occasione del primo anniversario della morte di Stalin per dare riscontro alla grande impressione ricevuta da quel particolare del Presepe di Giotto. Quest’opera mostra la propria genesi con riferimento a un excursus sul quale sembra interessante indagare perché mette in relazione una tematica simbolica del sacro reinterpretata in una icona politica, alla quale, quasi a voler evitare ogni fraintendimento riguardo al suo reale significato, viene associata una piccola immagine del dettaglio giottesco della croce del Presepe di Greccio. Confrontandone l’immagine con lo schizzo dello studio preparatorio si può riscontrare anche una corrispondenza tra la costruzione grafica della due figure come risulta dagli schemi che ho eseguito. Per cui è ipotizzabile che il valore simbolico della falce e martello che appare come l’elemento di contenuto più rilevante, possa in effetti essere considerato il pretesto cui Mari ha fatto ricorso per applicarsi alla restituzione della struttura formale di quella rappresentazione che gli era risultata di particolare interesse.
Tutt’altro significato la riproposizione di questa struttura assume nel ’73 dopo che egli avrà fatto alcune esperienze di partecipazione riguardanti le contraddizioni di quella particolare drammatica fase storica che pose a molti l’alternativa tra una disciplinata militanza all’interno delle organizzazioni della sinistra storica o l’adesione ai massimalismi dei movimenti extraparlamentari. In quella circostanza egli si impegnò a sviluppare, in piena autonomia, una sintesi tra discipline del progetto e impegno politico sociale.
L’epilogo di questo lungo processo di reinterpretazione del simbolo della falce e martello è rappresentato dal progetto n. 1220 Quarantaquattro valutazioni del 1976 – poi presentato alla Biennale di Venezia del 1978 - nel quale Mari lo scompone in un puzzle i cui elementi diventano 44 sculture differenti nelle quali la falce e martello non è affatto riconoscibile. Mi sento di affermare che questo progetto rappresenta il modo in cui Mari si è congedato non soltanto dal simbolo ma anche dall’ideologia che rappresentava
Esperienza saliente di questo nuovo corso è quella, molto nota, che nel suo accuratissimo archivio è classificata come Progetto 1123, Proposta per un’autoprogettazione documentata in un opuscolo dei progetti da realizzare pubblicato nel 1974 e ripubblicato nel 2002 con una selezione di articoli dedicati al progetto e di lettere ricevute da chi aveva partecipato all’esperimento, dando conto delle proprie motivazioni e scopi.
Questo progetto rappresenta una vera utopia con cui egli si era proposto di attivare un’ampia azione formativa e partecipativa, per trasferire a livello socioculturale di massa le problematiche e le contraddizioni del design. In concreto ciò doveva avvenire attraverso un’esperienza di lavoro per produrre un mobile utilizzando come strumento martello e chiodi, assemblando tavole e listelli di legno grezzo. Esperimento che per sua stessa ammissione fallì perché meno dell’1% dei 5000 che vi aderirono ne colsero il senso, mentre la maggior parte si fece inviare il catalogo dei suoi progetti di sedie, tavoli, letti con l’intenzione di realizzare qualche mobile rustico per la casa di campagna o per far fronte a una propria necessità spendendo il meno possibile.
Va osservato che la pretesa che fosse possibile porsi una finalità formativa di massa tanto ambiziosa a partire dall’uso di chiodi e martello per realizzare un mobile, sembra una pia illusione e non si riesce francamente a comprendere come Mari non l’abbia capito prima di imbarcarsi in quell’avventura.
Ma il tempo, in una situazione mutata, sembra avergli dato ragione su un piano assai diverso. È giusto segnalare che il suo progetto genera oggi effetti significativi nell’esperienza di CUCULA, associazione berlinese impegnata nell’integrazione degli immigrati che produce e vende i mobili della Proposta per un’autoprogettazione e li espone nella propria sede accompagnati da queste parole di Mari: "I want to create models for a different society."
Difficile tirare le somme di questo discorso ma, scusandomi con tutti gli studiosi che di Mari hanno svolto una compiuta esegesi, osservo che la sua figura è tra i fenomeni dell’acceso dibattito che si sviluppò a Milano in quella fase storica. Mi azzardo a definirlo come un esponente dell’avanguardia contemporanea che si è sottratto sia ai conformismi della disciplina del design che alle ideologie del massimalismo di sinistra. Lo penso come un filosofo della progettazione che ha agito, e soprattutto pensato, fuori dagli schemi ribaltando i paradigmi del rapporto tra teoria e prassi partendo sempre da quest’ultima, dalla concretezza del lavoro, come fattore di riferimento per definire una teoria del design mettendo in atto un approccio althusseriano che partendo sulla pratica empirica e produttiva dell’artista-progettista, si impegna a conquistare il terreno della razionalità scientifica, della speculazione teorica e dell’etica del progetto.
Immagine di apertura: Emilio Battisti, Enzo Mari, olio su tela, 70x120 cm, 2012