Questo articolo è stato pubblicato, in versione integrale, su Domus 1013, numero speciale, maggio 2013.
L’Italia sismica
Il cantiere Italia è di tipo quantitativo e non qualitativo: la sequenza sismica che, dal 2009 senza soste, sta sconvolgendo il Paese ha svelato un atteggiamento culturale ignaro delle vicende verificatesi nella storia dei terremoti italiani degli ultimi 50 anni.
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- Matteo Agnoletto
- 23 maggio 2017
- Italia
L’Italia è fragile. La sequenza sismica che, dal 2009 senza soste, sta sconvolgendo il Paese ha svelato un atteggiamento culturale ignaro delle vicende verificatesi nella storia dei terremoti italiani degli ultimi 50 anni. A seguito dei tre recenti eventi tellurici, le modalità d’intervento connesse alla catastrofe, sintetizzabili in azioni sul patrimonio storico, sulle unità abitative provvisorie, sulle nuove opere di ricostruzione si manifestano attraverso risultati estranei a una gestione coordinata, connotandosi come isolati episodi marginali. A fronte di oltre 50.000 edifici da ricostruire e con un investimento superiore ai 20 miliardi di euro di risorse pubbliche, il cantiere Italia è di tipo quantitativo e non qualitativo.
Si è spezzata la continuità con il passato quando si è registrato un susseguirsi di progetti collettivi generatori di modelli, di laboratori sperimentali, di storie: in Belice il Cretto di Burri e l’attività sul campo di intellettuali e architetti riuniti da Pierluigi Nicolin, a Napoli l’impegno diretto di Andy Warhol e Joseph Beuys oppure il ‘sistema’ Friuli, capace di far coesistere i principi del “dov’era, com’era” con una ricerca d’avanguardia che ha espresso esempi d’eccezione nelle fabbriche di Gino Valle. Storie che, rilette adesso, sembrano davvero generose occasioni di slancio, che al dibattito hanno fatto seguire atti effettivi. Oggi tutto è subordinato a circostanze politiche e il ‘metodo’ d’intervento dipende esclusivamente da logiche economiche e da limitate visioni d’insieme. È il crollo delle idee.
Capitolo 1: L’Aquila 2009–2017
La ricostruzione post-sisma rappresenta una delle spine di questa Italia. Esplorando la zona rossa, L’Aquila si mostra ancora come una città fantasma. Se il modello C.A.S.E., sollevando comprensibili polemiche, non ha risolto i problemi reali di disegnare spazi di vita adeguati e viene tuttora assunto come il simbolo negativo del terremoto abruzzese, appare evidente che la questione è in realtà molto più complessa. Non bastano opere qualificanti come l’auditorium di Renzo Piano o la concert hall di Shigeru Ban: architetture propiziatorie disperse in un territorio dove è urgente valorizzarne l’identità e il carattere specifico, coi quali fondare le prassi della ricostruzione. In tali situazioni, è necessario riscoprire le tracce e gli elementi perduti dell’architettura spontanea e anonima. Un processo di riappropriazione dei segni che deve affidare alla peculiarità del luogo il significato del progetto, riducendo al minimo la prevalente componente tecnicista di linguaggi autoreferenziali avulsi dal contesto, afferenti a un’idea internazionalizzante dell’architettura.
Capitolo 2: Emilia 2012–2017
Come in Irpinia nel 1980, gli sfollati vengono ancora alloggiati in modeste baracche di cantiere allineate in batteria. I riferimenti a Elemental o Toyo Ito sono qui sconosciuti. Si è detto che quello dell’Emilia è il sisma dei capannoni: i ‘soli’ 27 morti per la maggior parte sono vittime dei cedimenti delle strutture isostatiche collassate a causa della mancanza di un collegamento fisso nel nodo tra trave e pilastro. Ma è la geografia essenziale della pianura a essere alterata dalle dinamiche di una ricostruzione che sta facendo più danni del sisma stesso. Le corti agricole rese celebri dalle fotografie di Ghirri e dai racconti di Guareschi sono un pezzo di quel “paesaggio italiano” in via di estinzione. Da sempre contraddistinte da una purezza geometrica e da semplici forme, sono abbattute e cambiate con case in legno prefabbricate rivestite con cappotti termici, PVC e cartongessi. Che siano rifatte come identiche copie goffe o simulino le baite trentine poco importa.
Certamente in Emilia all’impianto urbanistico delle new town aquilane si è preferito quello della ‘villettopoli’: case sparse nella campagna erette con bizzarre articolazioni senza un rapporto consapevole con l’intorno. I servizi primari dei paesi si concentrano in nuovi aggregati, cresciuti in pochi mesi ai bordi dei centri storici: municipi, scuole, palestre, consumando suolo agricolo prezioso, resteranno come incomprensibile testimonianza di questo accadimento, relazionandosi casualmente senza progetto. La nuova “Emilia outlet”, del tutto simile ai villaggi commerciali in stile posizionati lungo le autostrade. Il nido d’infanzia di Mario Cucinella a Guastalla, il learning garden di Carlo Ratti a Cavezzo, la chiesa di Davide Marazzi a Medolla, le scuole di Paolo Didonè, i centri diurni di Mauro Frate sono vani tentativi oscurati da migliaia di opere insignificanti confezionate da imprese e professionisti, disinteressati alla qualità dello spazio costruito o ai valori di questa terra.
Capitolo 3: Centro Italia 2016–2017
Il rischio vero è quello dello spaesamento. Ovunque il riversarsi di nuovi edifici priverà di riconoscibilità questi territori con intromissioni distruttive e contaminazioni del paesaggio. Per le centinaia di frazioni congiunte da sentieri e fattorie contadine che formano questo tratto della dorsale appenninica il futuro è molto incerto. L’assemblaggio di moduli temporanei di prima accoglienza, risolti con tende e container di pannelli grigi, si ripete con la stessa, metodica regolarità già vista. Le proposte alternative di Shigeru Ban di allestire nella palestra di Camerino camere protette da velari in tela fissati a tubolari di cartone sono un esercizio parziale, non concretizzatosi in una soluzione che avrebbe dovuto essere estesa e diffusa. A parte la mensa di Stefano Boeri ad Amatrice, già operativa, si procede lentamente con scontati inserimenti edilizi. Anche in questi luoghi le tradizionali costruzioni di pietra arenaria saranno sostituite da tecnologici prefabbricati di legno.
Aggirandosi per Accumoli, Arquata o Norcia, si capisce bene che la devastazione del terremoto ha compromesso un patrimonio artistico talmente vasto da rendere impossibile il recupero della storia. Se da una parte i “cantieri leggeri” e i 10 prototipi dimostrativi in fase di studio da Renzo Piano al lavoro con il gruppo G124 al Senato affidano alle esigenze della prevenzione la salvaguardia dell’Italia, dall’altra rimane insoluto un dilemma: come e dove ricostruire? E specialmente il progetto del nuovo e il restauro dell’antico sono ormai due approcci inconciliabili della disciplina? Probabilmente non avremo risposte, essendo le buone pratiche del mestiere esautorate da ogni possibilità di applicazione. Certamente senza un’architettura radicata nella tradizione, la forza livellatrice della ricostruzione si trasmuta in un’irreversibile stravolgimento dei mille e diversi paesaggi italici, per mezzo di un gran numero di soluzioni non precostituite, accelerando un’omologazione del territorio che è l’antitesi delle variegate specificità locali della penisola. Distruggendo irrimediabilmente quell’unità inscindibile tipicamente italiana tra architettura e ambiente, questi “oggetti singolari” ci proiettano verso un futuro sempre meno sicuro.
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