Arrigo Arrighetti (Milano, 1922 – Siziano, 1989), tecnico e progettista impiegato presso gli uffici del Comune di Milano, ha giocato un ruolo importante nella fertile stagione architettonica del secondo Dopoguerra. È stato artefice di edifici e quartieri di grande interesse e costantemente impegnato, nell’arco dei quasi quarant’anni di servizio, a promuovere la realizzazione di spazi di qualità con le risorse allora disponibili. Non a caso, questo civil servant venne individuato già nel 2012, unico italiano, da Reiner de Graaf dello Studio Oma come caso esemplare di architetto impegnato nella costruzione della società, nell’ambito della Biennale veneziana diretta da David Chipperfield.
Il primo contatto con il Comune di Milano avviene nel 1940 quando viene assunto come avventizio, prima di passare nel 1941, anno del diploma presso l’Istituto Tecnico per Geometri, alla Divisione Edilizia Monumentale. È lì che, dopo la laurea in architettura presso il Politecnico di Milano (1947), riceve l’incarico di realizzare l’oggetto della sua tesi: la ristrutturazione del palazzo Sormani, pesantemente bombardato pochi anni prima, individuato come nuova sede della biblioteca civica (Domus 993, luglio 2015). È la prima commessa importante ma, nell’arco degli otto anni della sua esecuzione (1948-1956), Arrighetti lavora su una trentina di altri progetti, molti realizzati, a testimonianza della grande fiducia di cui gode all’interno dell’apparato comunale. All’impegno progettuale affianca l’attività didattica come assistente nei corsi di Tecnica delle Costruzioni e Tecnologia dei Materiali (1947-1961), contesto dove approfondisce le possibilità strutturali offerte dalle tecnologie moderne e, successivamente, alla cattedra di Urbanistica (1961-1969) presso il Politecnico di Milano.
Nel 1956, oltre all’inaugurazione della Biblioteca, arriva la promozione a Direttore dell’Ufficio Progetti Edilizi nell’Ufficio Tecnico del Comune. Seguono gli anni più intensi della sua produzione architettonica, per quantità come per assortimento di programmi funzionali e tipologie edilizie. Tanto che nel 1960, un Gio Ponti impegnato nella redazione della guida “Milano oggi,” si rivolge ad Arrighetti per chiedere la sua partecipazione, il suo consiglio e le sue segnalazioni, chiosando con un’ironica raccomandazione di fornire “foto un po’ animate, non quelle deserte che facciamo noi architetti.”
Nel 1961, per i successivi nove anni, passa a dirigere l’Ufficio Urbanistico – che riorganizzerà – impegnandosi anche sulla revisione del Piano Regolatore Generale del 1953. Arrighetti dimostra di essere un architetto a tutto tondo, che progetta di tutto: sia residenze private, come quella al QT8 per l’artista Romano Rui – unica opera presentata nelle pagine di Domus nel luglio 1954, sul numero 296 – che è una rivisitazione della casa-bottega-atelier; sia comparti abitativi complessi, pensati non più come satelliti orbitanti intorno al cuore geometrico, sociale ed economico di Milano, ma come organismi autosufficienti; basta pensare al Quartiere Sant’Ambrogio, del quale Gio Ponti, tornando a scrivere, chiede foto, da far scattare “da un fotografo intelligente”, per pubblicarle su Domus.
È bene chiarire che industrializzazione e prefabbricazione non tolgono all'architetto la possibilità di creare liberamente ma, al contrario, aprono un campo nuovo in una nuova tecnica che promette infinite e seducenti possibilità.
Arrigo Arrighetti, 1955
Ma Arrighetti costruisce simultaneamente anche edifici di culto, come la chiesa di San Giovanni in Bono (1968) – col suo volume cuspidato in calcestruzzo a vista che l’ha resa icona del brutalismo milanese – o quella per l’Anno Santo (1974); per lo sport, come la Piscina Solari (1960); per l’educazione – una ventina di progetti per scuole dedicate a diverse fasce d’età – ma anche architetture legate ai sistemi infrastrutturali come la stazione-modello della metropolitana Amendola (1957-60). Emerge una fascinazione per l’esercizio progettuale come occasione di sperimentazione costante, a cui fa seguito una sorprendente efficienza produttiva e qualità architettonica.
Spesso i programmi degli spazi nascono come reazione al contesto urbano, che apre a un ventaglio di relazioni e transizioni tra la sfera pubblica e ambito privato: è il rapporto pieno-vuoto nei progetti delle scuole, tanto nei tessuti compatti quanto in ambiti più radi, come nella Scuola materna Martin Luther King (1951) al QT8, o in corrispondenza dei tracciati infrastrutturali come gli edifici in via Clericetti. Particolare importanza assumono le singolarità architettoniche immerse negli spazi della quotidianità, come la Piscina Solari nel Parco Don Luigi Giussani o la chiesa di San Giovanni in Bono nel suo quartiere.
La funzione fondamentale e insopprimibile del verde è di riequilibrio ambientale. Questa considerazione vale sia per i parchi veri e propri, che per i verdi agricoli che circondano la città.
Arrigo Arrighetti, 1969
Frequente anche il ritorno a soluzioni tecnologiche e linguistiche, vere e proprie variazioni sui temi a cui Arrighetti sembra affezionato: il modulo quale elemento compositivo tanto di pianta quanto di facciata, vedi Palazzo Sormani (1956); l’illuminazione naturale, spesso declinata con quei lucernari che illuminano le parti più interne degli edifici, scuole e istituti di ricerca in primis. Così come quelle facciate permeabili che diventano filtri tra interno ed esterno, sia attraverso operazioni di schermatura, mediante elementi ripetuti, sia con la costruzione di membrane diafane, che lasciano il verde dei giardini entrare nelle sale interne.
La scarsità di protocolli e riferimenti normativi per alcune destinazioni specifiche, come la Scuola per bambini ambliopici (1955) o l’Istituto Vaccinogeno Antitubercolare (1952) favoriscono il confronto con specialisti in campo medico che collocano le architetture di Arrighetti ad un livello pioneristico. La struttura è poi spesso elemento espressivo, tema affinato anche nell’ambito dei corsi al Politecnico, per Arrighetti mai delegato unicamente alla competenza degli ingegneri. I disegni nati dalla sua mano mostrano infatti un interesse verso il controllo dell’organismo architettonico in toto, dall’organizzazione del programma all’ingegnerizzazione della costruzione, per una qualità sostanziale dell’architettura, quasi indifferente al suo impatto mediatico. Arrighetti costruisce anche per lo stesso apparato amministrativo in cui lavora, come testimoniano i palazzi per uffici in via Deledda (1956), in via Boldini (1958) e in Largo Treves. Testimoniavano, in questo caso, visto che i lavori di demolizione del “bidoncino”, così i milanesi hanno battezzato l’ex-palazzina con dieci piani ad uffici, sono entrati nel vivo nel 2024.
Dal 1970 al 1976 è Vicedirettore dell’Ufficio Tecnico del Comune e coordinatore dei settori pianificazione, esecuzione dei piani, edilizia privata. Diventato Condirettore nei tre anni successivi, nel 1979 lascia gli incarichi in Comune per la libera professione. Tra i progetti più significativi che lo impegnano negli ultimi dieci anni troviamo la riorganizzazione dell’area dei Mercati Annonari all’Ingrosso (1980), del Centro Tecnologico a Napoli (1981), della nuova Zona Annonaria a Pavia (1983), del mattatoio comprensoriale a Perugia (1985).
Circa 150 edifici realizzati, perlopiù a Milano, nell’arco di una vita durata appena 67 anni. Basterebbero i numeri a fare di Arrigo Arrighetti uno degli architetti decisivi nel panorama milanese, non fosse altro per la fitta presenza del suo lavoro impresso nelle vie, nei giardini e nei quartieri. Ma sarebbe certamente una lettura parziale, visto che dalle molte opere che ancora oggi possiamo osservare e abitare, emergono i tratti caratterizzanti di un progettista cha ha saputo innovare nel campo dell’architettura e interpretare molti dei cambiamenti della Milano del secondo Dopoguerra.
Immagine di apertura: Arrigo Arrighetti, Chiesa di San Giovanni in Bono, 1968. Foto Marco Menghi