Proprio su questo dualismo tra empatia e distanza possiamo osservare le installazioni in Laguna. In particolare le tante che si concentrano sul fronte dei fenomeni migratori. In effetti, complice lo sconvolgimento degli equilibri geopolitici negli ultimi anni, su qualunque entroterra mediterraneo oggi si guardi – europeo, mediorientale o nordafricano – incontreremo campi in cui l’architettura è chiamata in causa: per costruire alloggi per rifugiati, ripensare centri di prima accoglienza, o attutire gli shock urbani al momento dell’arrivo delle nuove masse di stranieri.
Su questa scena, un attore di primo piano è la Germania. Cioè la nazione che, in sostanziale controtendenza con il resto d’Europa, dall’autunno del 2015 ha scommesso sulla possibilità di trasformare l’immigrazione – tra i massimi sismi della storia – in leva economica con la quale controbilanciare un declino demografico altrimenti inevitabile nei prossimi decenni. Ma le città tedesche potranno reggere all’urto? Se lo domanda “Making Heimat”, il padiglione curato da Peter Cachola Schmal, Oliver Elser e Anna Scheuermann del Deutsche Architekturmuseum di Berlino.
L’esposizione ruota intorno a un concetto: la Arrival City. Ovvero il primo luogo di incontro tra i migranti e lo spazio urbano. La Arrival City può sovrapporsi a un quartiere già esistente, senza alterarne le sembianze topografiche; oppure può diventare una nuova presenza fisica, prendendo la forma di insediamenti come slums e favelas.
Si tratta di una categoria narrativa presa in prestito dalle ricerche del giornalista Doug Saunders. Nel suo saggio Arrival City del 2011, Saunders mappava aree diverse di immigrazione – da Neukölln a Berlino a Peckham a Londra, fino a Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Dharavi a Mumbai. Anche se il suo termine non si riferisce a un singolo Paese, l’idea portante è che la Arrival City sarà nel futuro prossimo sempre più decisiva nello sviluppo urbano tedesco.
Collaborando alla realizzazione del padiglione, Saunders ha suggerito otto tesi che raccontano il concetto, attraverso osservazioni pragmatiche in cui si ritrova un certo spirito alla Jane Jacobs. Tra le altre cose, la Arrival City si presenta come “A city within a city”, “Close to business”, “Informal”, “On the ground floor” – definizioni che evidenziano caratteri di auto-organizzazione, solidarietà e fermento imprenditoriale, come anche di continua oscillazione tra legalità e illegalità. Soltanto una tra le tesi ha un carattere prescrittivo: “La Città d’Arrivo ha bisogno delle scuole migliori” (“The Arrival City needs the best schools”). Le altre sembrano suggerire che l’osservazione – la giusta distanza – è il passo che deve precedere ogni giudizio o progetto.
Gli slogan di Saunders sono stampati in bella evidenza nelle sale del padiglione nei Giardini. Il quale, in modo notevole, si presenta senza più alcuna porta o divisione interna. Tutte quelle che c’erano sono state abbattute a martellate. Questa scelta, che simboleggia un’intenzione di apertura dei confini, va riconosciuta come sincera e meritoria. Tuttavia è difficile restare affascinati dalla nobiltà del gesto, prima che si faccia palese l’evidenza di un cortocircuito tra la rappresentazione architettonica e la realtà geopolitica.
La Biennale d’Architettura, nata nel 1980, è una figlia degli umori postmoderni, e di una diffusa considerazione disilluso-ironica sulla capacità della politica di opporsi alle forze del mercato. Rispetto al passato, quest’anno si può intravedere un cambio di marcia. Ma se il clima di impegno e la generale mancanza di cinismo nell’edizione guidata da Alejandro Aravena ci dicono di una ritrovata fiducia nella possibilità degli architetti di tornare a condizionare la storia, ci mettono anche di fronte a una visione del mondo ancora saldamente dominata dalle nazioni.
Due decenni fa, affrontando le difficili scelte legate all’integrazione di Serba, Croazia e Turchia nella UE, il grande storico John Pocock scriveva: “Queste non sono decisioni che debba prendere il mercato, ma decisioni dello stato. E rivelano chiaramente che l’Europa è ancora una composizione di stati i cui interessi formati dalla storia producono atteggiamenti divergenti nei confronti del problema “Europa” e dei suoi confini”. Pubblicato nel 1994, in un periodo di infatuazione per le teorie di Francis Fukuyama sulla fine della storia, Deconstructing Europe rivendicava il fatto che “c’è ancora qualcosa che la storia ha da fare”, per poi però lanciare un avvertimento: “Non si tratta di una prospettiva confortante”.