Avviata nel
1985, con il primo grado di un concorso
internazionale a inviti, la trasformazione
dell'area Pirelli, nel
quartiere milanese della Bicocca, è
uno degli ultimi grandi interventi urbani
del secolo scorso, insieme per
esempio, alla Vila Olímpica di Barcellona
o a Canary Wharf, nei Docklands
di Londra.
Un quarto di secolo dopo l'avvio
dei primi lavori nel 1989, il completamento
degli ultimi vuoti e la messa
a regime delle aree verdi della Collina
dei Ciliegi hanno sostanzialmente
traghettato i principi insediativi
del suo originario programma in
una nuova immagine della città che si confronta, in maniera imperativa,
con l'esplosione dei nuovi quartieri
che – dalla Bovisa all'ex Fiera e all'area
di Garibaldi-Repubblica – sta
ribaltando il profilo di Milano e la
sua struttura radiocentrica.
Infatti, con un'estensione di 700.000
m2 (comparabile con la Défense di
Parigi e superiore ai casi di Londra e
Barcellona), l'insediamento nell'ex
stabilimento Pirelli non è solo l'intervento
più rilevante tra i pur numerosi
esempi di riconversione di
aree industriali dismesse, ma è anche
quello che, con maggior forza,
ha identificato il tema del progetto
urbano con una visione strategica
della città contemporanea e con
il ruolo che è chiamata a svolgervi
l'architettura.
Un progetto 'lento' – di "lunga durata"
lo chiama Gregotti, applicando
all'architettura le note tesi storiche
di Fernand Braudel – provocatoriamente
controcorrente rispetto alle
pretese dell'instant architecture che si
è affermata come pratica dominante
nella logica del master plan, e che
testimonia la nozione di progetto come
'modificazione' che respinge sia
la pretesa di utopie definitive sia la
devozione a gesti liberatori, in fuga
da ogni contesto storico di appartenenza.
Da questo punto di vista, dunque,
l'intera operazione Bicocca può
considerarsi come l'espressione più
radicale e coerente di una posizione
che, proprio a fronte del palese fallimento
dell'euforia pianificatoria
della decade scorsa, reclama la sua
rivincita sia sulla teoria del junk space,
sia sull'accettazione dello sprawl
come modello di urbanistica 'spontanea'
dal basso.
Per quanto sia stato oggetto di discussione
da parte dei più vari interlocutori
(urbanisti, architetti, artisti,
sociologi, artisti…), il tema della città contemporanea non ha ancora ricevuto
risposte convincenti nella pletora
di proposte che hanno scambiato
la prospettiva ecologica come una
scorciatoia immaginifica verso un futuro
dai contorni più fabulistici che
reali o che hanno invece adattato la
metafora della 'fluidità' sociale al liberismo
del capitalismo finanziario,
traducendola nella gratuita varietà
di schemi fondati sull'abuso iconico
e sull'invenzione artistica. Così, nonostante
la sostanziosa antologia di
immagini futuribili, il problema del
disegno urbano è rimasto sostanzialmente
eluso, sostituito dalla pratica
del caso per caso che lascia mani libere
a tutti e riduce la questione della
responsabilità sociale a una scelta
tra opzioni estetiche.
Dalla fine del XIX secolo, la tradizione
moderna si è costruita proprio a
partire dalla riflessione sulla nuova
città, nella consapevolezza che l'avvento
della meccanizzazione richiedesse
approcci radicali nella prefigurazione
della società contemporanea.
Il passaggio dalla società industriale
a quella post-industriale e
globale ha reso oggi quegli schemi
irrimediabilmente impraticabili:
non ha cancellato tuttavia (anzi l'ha
resa più drammaticamente attuale)
la consapevolezza dell'irrinunciabilità
di un principio insediativo che
consideri il 'nuovo' come una dialettica
interrelazione con il contesto
e non un cedimento a gratuite
morfologie decorative.
È questo il cuore della posizione di
Vittorio Gregotti quando sostiene
che "il progetto di una nuova città
necessita, nello stesso tempo, di un
principio insediativo e del suo confronto
con le condizioni empiriche
dello stato delle cose, delle necessità
e del sito".
Esso non è, quindi, l'invenzione di
un modello astratto da applicare al
suolo, ma la proposta di un principio
di insediamento che nasce dalla
complessità dell'esistente e dal raggiungimento
di un ordine che non
cancelli o semplifichi le tensioni esistenti
in un luogo, ma le organizzi in
maniera da renderle visibili e confrontabili.
Nel caso della Bicocca,
significa rapportarsi al passato industriale
del sito (alla memoria del
recinto di fabbrica), così come alle
interrelazioni storiche tra la Milano
radiocentrica e la periferia e all'eredità
operante di una tradizione intellettuale
che, proprio sul terreno del
'quartiere' e della città, ha prodotto
i suoi risultati più convincenti: dagli
ensembles razionalisti di Pagano e di
Albini a quelli 'revisionisti' della stagione
INA-Casa di Ponti, Gardella,
Figini e Pollini.
La ricerca di nuove regole fondative
fu, d'altra parte, il vincente campo
di battaglia della migliore architettura
italiana, come dimostrano tuttora
l'esemplarità di molte delle "città
nuove" realizzate nel Ventennio e lo
stesso quartiere dell'EUR, non a caso
considerato come una delle aree di
maggiore vivibilità della Roma contemporanea.
Questo non significa
l'elogio del passato, ma la sua riconsiderazione
critica al di fuori di ogni
paravento ideologico e di ogni pretesa
di innovazione fine a se stessa.
Con qualche isolata eccezione, rispetto
alle tante idee di città che
si stanno concretizzando nei vuoti
urbani di Milano – Porta Vittoria,
piazzale Maciacchini, ex Fiera, Santa
Giulia, Famagosta – il quartiere
della Bicocca è l'unico ad avere una
sua definita identità: che con il tempo
si precisa sempre di più nelle sue
relazioni con i bordi della città, promettendo
di mantenere la promessa
di diventare il centro storico della
nuova periferia.
Il principio etico della Bicocca
Fra le tante "idee di città" che si stanno concretizzando nei vuoti urbani di Milano, il quartiere della Bicocca è l'unico ad avere una sua definita identità.
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- Fulvio Irace
- 16 ottobre 2010
- Milano