di John Foot
“Guardate le mie opere, o potenti, e disperate” (da: Percy Bysshe Shelley, Ozymandius, 1817)
Oltre le rovine
Un anno fa, in contemporanea alla riapertura dopo un costoso e controverso ‘rinnovamento’, Domus ha pubblicato un’ampia indagine sul “restauro conservativo” del più celebre teatro dell’opera del mondo, la Scala di Milano. E mentre il giornale andava in stampa, negli spazi del museo della Triennale si è tenuto un dibattito che ha visto un’aula zeppa di architetti, urbanisti, politici e giornalisti disputare, a tratti furiosamente, intorno al nuovo edificio. È stata una discussione densa, adirata, appassionata e appassionante. Giunta, però, troppo tardi: nel momento in cui ci riunivamo alla Triennale, la ‘nuova’ Scala era già finita, il punto di non ritorno era già stato raggiunto. È ben noto che il restauro è stato commissionato senza indire un concorso: il dibattito alla Triennale è stato quindi del tutto inutile - non poteva avere alcun effetto sulla realtà della metropoli lombarda – e la nuova Scala è stata presentata, in tutta semplicità, come un trionfante fait accompli, meraviglioso esempio di un’etica del lavoro capace di sconfiggere i ‘conservatori’. Soverchiata dal trionfante clamore dell’inaugurazione, quella di Domus è risuonata come una voce nel deserto. E il sospetto che la sinistra avesse sostenuto l’intero progetto – grazie al fatto che l’impresa costruttrice era legata alle cooperative – ha trovato conferma alla Festa Nazionale dell’Unità del 2005, dove i visitatori erano accolti da una ‘ricreazione’ piuttosto desolante della Scala, completa di finto tappeto erboso all’entrata.
Il re è nudo
La serata inaugurale Il 7 dicembre 2004, sotto gli occhi dell’intero pianeta, il nuovo Teatro alla Scala ha riaperto le porte. È stato un trionfo: Milano sembrava essere tornata ai gloriosi, spensierati giorni degli anni Ottanta, quando la borsa cresceva senza sosta e il Partito Socialista regnava sovrano. Fuori dal teatro, i biglietti passavano di mano a 1.500 euro l’uno, e le stelle tornavano ad apparire: ecco Sofia Loren e Giorgio Armani, i capi di governo di Bulgaria, Croazia e Albania, il presidente greco, otto ministri italiani. Dal palco reale, Silvio Berlusconi commentava: “Bello, vero? Meraviglioso, vero?” Alla rappresentazione facevano seguito quindici minuti di applausi e una cena di gran gala per mille invitati, tenutasi – scelta quanto mai appropriata – negli spazi della ex-fabbrica Ansaldo, gli stessi che avevano ospitato il congresso del partito di Bettino Craxi nel 1985, quando il leader socialista era al vertice del potere. Molti, tra i presenti, sostenevano che la riapertura della Scala segnava la “rinascita di Milano”. Nelle parole di Riccardo Muti, direttore musicale del teatro, “La gioia dell'orchestra, del coro, del ballo, dei tecnici e delle sarte è stata la dimostrazione più chiara di come la famiglia della Scala abbia ritrovato la propria casa e sia stata felice di riaprirla con quest’opera”.
Disastro. Intrigo, Purghe
Il re, tuttavia, era nudo. Dal momento dell’inaugurazione, la Scala è balzata da una crisi all’altra, e a “famiglia della Scala” è passata attraverso una lunga serie di pubblici divorzi. Tutti i membri dell’organizzazione che avevano presieduto al costosissimo restauro hanno abbandonato, di solito in circostanze controverse. In febbraio, il sovrintendente del teatro, Carlo Fontana, è stato “sollevato dall’incarico” a sette mesi dallo scadere del suo contratto. Fontana era stato il più fervente sostenitore di un drastico rinnovamento dell’edificio, e aveva affermato che un simile intervento non era solo importante, ma necessario per la sopravvivenza della Scala. Il 18 marzo Riccardo Muti, da vent’anni direttore artistico del teatro, si è dimesso dopo che l’orchestra aveva rifiutato di suonare sotto la sua direzione, in un esempio di ‘rivoluzione’ senza precedenti nel mondo della musica. Il maestro giustifica la sua decisione in una lettera aperta “Ai Signori Professori dell’Orchestra Filarmonica e del Teatro alla Scala’, dove sostiene che nel clima di “illazioni, offese e incomprensioni” creatosi non ci sono “le condizioni, anche oggettive, per fare musica insieme”. Vengono quindi ‘scoperti’ debiti di enorme entità (alcuni resoconti parlano di almeno sedici milioni di euro). Sparite le due cariche più importanti tra quanti avevano sovrinteso al restauro, al loro posto arrivano un francese, Stéphane Lissner, e un italiano, Mauro Meli.
Pagina di bilancio. La Nuova Scala
Mario Botta descrive spesso i critici della nuova Scala come ‘conservatori’, mentre definisce ‘radicale’ il suo contributo all’edificio. Forse. Che vi siano dei conservatori tra quanti si sono opposti, e continuano a criticare, l’aggiunta bottiana al tetto della Scala, è fatto accertato. Tuttavia, la principale obiezione mossa alla scintillante ellisse di Botta non è quella di essere troppo radicale, ma di essere stata realizzata senza ricorrere a un concorso internazionale, ossia sulla base di un diktat. L’aver aperto il dibattito sulla Scala con maggior anticipo avrebbe infatti permesso di presentare proposte anche più radicali. Purtroppo, la decisione è stata invece sottratta alle mani dei milanesi, i quali non hanno avuto l’opportunità di vedere l’edificio fino a quando non era quasi ultimato. Architettura su diktat – e con l’uso di denaro pubblico – è stato quindi il metodo imposto alla Scala: lungi dall’essere moderni e radicali, i metodi adottati sono una straordinaria dimostrazione di conservatorismo. Il dibattito è stato soffocato, l’informazione repressa. Piuttosto che segno di una democrazia, l’intero affare ricorda i metodi dell’architettura stalinista. E la sinistra milanese – con eccezione dei Verdi – deve assumersi la sua parte di responsabilità: la pomposa – e triste – presentazione della nuova Scala alla festa Nazionale dell’Unità di luglio, con le sue aiuole di plastica verde, non ha fatto altro che confermare il timore che ai vertici della sinistra molti siano “stati buoni” a causa del ruolo chiave delle “cooperative rosse” nei lavori di costruzione. Per ciò che riguarda il lavoro di restauro in sé, bisogna dire che esso è stato condotto con cura amorevole e grande attenzione per i dettagli. È un vero peccato che la straordinaria opera di Elisabetta Fabbri sia stata subito dimenticata, sopraffatta dal protagonismo architettonico e personale di Botta e della sua torre. Alla fine, Persino Silvio Berlusconi ha cambiato radicalmente attitudine verso quello stesso teatro che aveva lodato nel dicembre 2004, affermando che l’azienda ha ‘troppi’ lavoratori e ordinando al suo ministro dei beni culturali di preparare un dossier sulla gestione del teatro.
Il teatro vuoto. Gli Arcimboldi
Pochi chilometri a nord della città, nella nuova area della Bicocca, sorge un enorme teatro con più posti a sedere della Scala stessa. Costruita al costo di ottantacinque miliardi delle vecchie lire (cinquantacinque sono arrivati dalla Pirelli, trenta dal Comune di Milano) la struttura è stata inaugurata nel gennaio del 2002. Ma questo luccicante, imponente edificio ha funzionato da teatro dell’opera per due sole stagioni complete. Oggi rimane desolatamente vuoto, e le sue porte si aprono solo per occasionali rappresentazioni uniche. Nessuno conosce la sorte futura degli Arcimboldi, nessuno sa chi coprirà le spese del teatro, o chi lo gestirà. Marco Tronchetti Provera si è dimesso dal consiglio della Fondazione La Scala nel settembre 2005 per protestare contro la mancanza di garanzie sul suo futuro. Ecco quindi la Milano di oggi: una città, due teatri dell’opera (uno dei quali inutilizzato). E milioni di euro spesi. Non si potrebbe magari convertire l’Arcimboldi in alloggi popolari per aiutare i diseredati della città, sempre alla disperata ricerca di un tetto?
Le rovine, il museo e la dispersione del palinsesto?
Durante il processo di demolizione, i milanesi si erano visti promettere accesso ai ‘tesori’ rimossi dalla vecchia Scala. Nulla di tutto ciò è avvenuto. Il famoso palcoscenico di Secchi, per quel che si sa, sta accumulando polvere da qualche parte nelle vicinanze di Pero. Nel novembre 2004, una parte della realizzazione di Secchi ha fatto ritorno a Milano per una mostra al Museo della Scienza. Il vicesindaco Riccardo De Corato, tuttavia, aveva promesso pubblicamente che l’intero palcoscenico sarebbe stato ricostruito perché “tutti i milanesi lo vedessero”. Da quel momento, l’ingegnosa e storica opera è scomparsa ancora una volta. Inoltre, ogni traccia del piccolo teatro disegnato dal Portaluppi – La Piccola Scala – è stata cancellata durante la costruzione dell’ellisse di Botta. La memoria di quel teatro/i quale spazio sperimentale – e gioiello architettonico – è stata obliterata. Nel frattempo, il museo della Scala ha fatto ritorno vicino alla sua vecchia sede, nel nuovo teatro. Si tratta ormai di un’istituzione piccola, carissima e conservatrice, che chiude all’ora di pranzo, e in cui il punto vendita delle guide del museo è situato a un passo dall’uscita. Il museo non fa menzione né della Piccola Scala né di Secchi, e questo nonostante il ruolo fondamentale nella ricostruzione post-bellica del teatro. La guida, a sua volta, tralascia l’edificio e quest’importante personalità, come se non fossero mai esistite. Persino la Nuova Scala è pressoché ignorata. Il ‘nuovo’ museo è una lezione di esclusione e oblio così come il vecchio, cadente Palinsesto è diventato uno sgretolato mosaico di ricordi dispersi, rovine arrugginite e vari altri articoli obsoleti, sparpagliati attraverso Milano e il suo hinterland.
Scelte e Democrazia
Milano, il denaro e il passato Milano, una città con un milione e trecentomila abitanti, che salgono a circa quattro milioni se consideriamo l’hinterland, ora ha due costosi teatri dell’opera, per un totale di [quasi] cinquemila spettatori. Non ha nessuno spazio per la musica contemporanea, nessun vero e proprio palazzetto per la sua squadra di pallacanestro e una lunga serie di strutture sportive fatiscenti. Mentre la nuova Fiera risplende a nord della città, la vecchia cade a pezzi, e il suo futuro verrà ancora una volta deciso – a quanto pare – in base a una decisione arbitraria, e senza l’articolato dibattito pubblico che una città come Milano merita. Mentre altre città simili - Bilbao, Barcellona, Birmingham, Glasgow - la stanno velocemente distanziando, Milano dà l’impressione di invecchiare, di essere del tutto incapace di rinnovarsi o anche solo di capire e salvaguardare il passato. C’è bisogno di un’iniezione di democrazia, di un’iniezione di idee, prima che sia troppo tardi, prima che il vasto potenziale creativo di questa città, un tempo grande, venga sprecato un’altra volta. E l’ellisse di Mario Botta rischia di diventare come la grande statua abbandonata dell’Ozymandius di Shelley.
“Più null’altro rimane d’intorno al declino di quel relitto colossale, sconfinato e spoglio solo sabbie solitarie e lisce, che si stendono lontano”.
La Scala. Ritorno al futuro?
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- 02 marzo 2006