di Deyan Sudjic

Norman Foster è un fenomeno. Non c’è veramente nessun altro come lui, anche se, (in Germania almeno), sono molti gli architetti che tentano in ogni modo di imitarlo: fino a usare per la loro carta intestata il carattere Rotis disegnato dal compianto amico di Foster, Otl Aicher, ad adottare lo stesso stile delle scritte a mano sui disegni, a costruire nello stile elegantemente tecnologico usato da Foster nel momento centrale della sua carriera. Il più vicino a lui potrebbe forse essere il SOM dei giorni migliori, quando lo studio era diretto da Gordon Bunshaft: il SOM è stato però fondato da tre soci e ha finito per diventare una coalizione policentrica sparsa in tutta l’America.

Anche Foster ha i suoi partner, è vero, professionisti pieni di talento che sono con lui da trent’anni: ma per quanto bene abbiano operato individualmente – alcuni almeno, se non tutti – non c’è dubbio che ciò che attualmente va sotto il nome di Foster and Partners è un’organizzazione da lui creata, perfetta nel produrre un’architettura che seduce anche i clienti più scettici.

Foster è a capo di uno studio che conta più di 500 dipendenti. Costruisce, ha costruito o è prossimo a costruire in Cina, negli Stati Uniti, in Germania, Spagna, Francia, Singapore, Arabia Saudita, Giappone, Malaysia, Hong Kong, Svizzera, Olanda, Italia, Inghilterra. Ha costruito aeroporti e parlamenti, case unifamiliari e grattacieli, musei, sale da concerto, biblioteche e università. Per non parlare del settore dello studio dedicato all’industrial design, dal quale escono progetti di tavoli, sedie, rubinetti. O del suo laboratorio, che sforna centinaia di modelli, prototipi e studi dettagliatissimi, parte essenziale del suo metodo di lavoro; ce ne sono tanti, e di qualità così elevata, che vengono conservati in magazzini usati solitamente per opere d’arte.

Foster ha ristrutturato il British Museum, ha costruito il nuovo Reichstag, ha riprogettato lo Stadio di Wembley. E il suo stile di vita è all’altezza del ruolo che si è creato. Pilota il suo jet personale, e pilotava anche il suo elicottero personale. Ha corso la maratona di Londra. Ha una Range Rover con autista e uno straordinario appartamento con vista a 180 gradi sul Tamigi, situato sopra il suo studio (sei piani più sotto) in un edificio progettato da lui, naturalmente.

Non solo è stato nominato cavaliere, ma anche pari d’Inghilterra, e ha quindi il diritto di essere chiamato Lord Foster. È membro del Britain’s Order of Merit, una delle poche onorificenze britanniche che ancora contino realmente: viene assegnata a un ristrettissimo gruppo di persone che l’establishment inglese ritenga dotate di grandi qualità intellettuali e di creatività: ma c’è un momento in cui, per un architetto, tutte queste grandi affermazioni possono tramutarsi in inconvenienti.

Quando Foster era giovane, nel breve periodo in cui fu socio dell’altrettanto giovane Richard Rogers, creava opere geniali lavorando al tavolo da disegno in un angolo del suo appartamento. Era un outsider al quale accadde di costruire almeno tre progetti assolutamente straordinari: la sede della Willis Faber & Dumas, il Sainsbury Centre e la Hongkong and Shanghai Bank. Oggi non è più un outsider, ma deve continuamente alimentare di lavori una macchina di 500 persone, e i suoi progetti non sono più automaticamente acclamati e definiti geniali.

Fra le proposte degli architetti sempre più smodatamente impegnati nella battaglia per la ricostruzione del World Trade Center, quella di Foster forse non è la più innovativa, ma è sembrata, nel caso, la più prontamente realizzabile, subito dopo essere stata resa pubblica; e, rispetto ad altri lavori recenti dello studio, è sembrata anche molto più sicura di saper ritrovare le proprie radici rivoluzionarie. Mentre Foster presentava il suo piano, si percepiva chiaramente l’affanno degli altri concorrenti, e si sentiva serpeggiare la loro paura di essere superati e battuti: si capiva che Foster era visto come un europeo che aveva osato essere più americano degli americani.

L’immagine delle torri gemelle di Foster, fuse in una sola struttura che in qualche modo fa venire in mente Brancusi, è andata a finire sulla prima pagina del New York Post: una posizione che si è solo gradualmente indebolita, via via che i commentatori di architettura culturalmente più agguerriti cominciavano ad accusare Foster di presunzione e ad attaccarlo.

Si è chiesto per esempio il New York Times: com’è che quando gli inglesi danno un’occhiata all’orizzonte vedono solo Singapore? Era il preludio alla presa di posizione del giornale in favore di Daniel Libeskind. Foster ha riversato tutto in questo progetto, deciso chiaramente a vincere. È sempre deciso a vincere, e questa volta più che mai. Se non ci riuscirà, non sarà certo per mancanza di determinazione.