“Due cose interessanti hanno guidato come ci siamo mossi durante il lockdown”, esordisce Karen Wong, vice direttore del New Museum al momento di questa conversazione, ricordando quello che è successo la scorsa primavera, e come i musei di New York hanno reagito allo scoppio della pandemia in città.
La prima è che “è stata creata una task force di direttori di musei in tutta la città”, qualcosa che non ci si aspettava affatto, spiega, dato che “i musei sono abbastanza competitivi, di solito”. Eppure, la pandemia ha avvicinato i musei, cercando strategie comuni, uno sforzo necessario per evitare un colpo fatale all’industria culturale in una metropoli che si è sempre vantata della ricchezza delle sue arti, dal più piccolo museo locale a istituzioni gigantesche e note in tutto il pianeta. “Tutti erano sulla stessa barca, a quel punto”, dice. E probabilmente spaventati, presumo io, il loro sgomento alimentato dall’incertezza, dalle visioni di una città bloccata per sempre, e per sempre sommersa dallo tsunami del Covid-19.
L’altro aspetto rilevante, e sotto molti aspetti una conseguenza del primo, sottolinea Wong, è stato il coinvolgimento delle piattaforme digitali nelle attività dei musei. Non è che prima i musei disdegnassero l’idea di avere una parte nel gioco di Instagram. “Ma è stata la pandemia a farci capire che bisogna sapere cosa fare con il digitale”.
È stata la pandemia a farci capire che dobbiamo sapere cosa fare con il digitale
Per il New Museum, l’artista italiano Maurizio Cattelan ha inventato “Bedtime stories”, un format basato sulla condivisione, da parte di un gruppo selezionato di artisti, dei loro passaggi preferiti di un romanzo, o di qualcosa che hanno scritto loro stessi. “È stato un grande successo”, spiega Wong, “e altri musei hanno iniziato a guardare quello che stavamo facendo”.
Entrare nel regno del digitale sottende un cambio di paradigma, e sorgono nuove domande. Come tradurre l’esperienza fisica online è ovviamente la prima, spiega Wong. Ma non l’unica. Puoi semplicemente replicare su Instagram la programmazione di conferenze che avevi nel tuo museo, per esempio? E anche se la risposta fosse sì, i musei devono trovare un modo per renderla economicamente redditizia. “Quando facciamo un talk nel nostro teatro, facciamo pagare l’ingresso, ma se lo fai online, la gente si aspetta contenuti gratis”. Ogni giornalista sa che questo è lo stesso dilemma che l’industria editoriale sta affrontando da almeno un decennio, oscillando con poco successo tra sistemi di paywall ed entrate sempre più ridotte da parte della pubblicità. Ma Wong è ottimista, e avventurosa. “È un territorio inesplorato, e tutti i musei la stanno affrontando in questo momento, quindi per molti versi è davvero divertente, ci saranno molti esperimenti”, commenta con un sorriso.
Wong è anche consapevole che durante il lockdown abbiamo subito un’overdose di contenuti digitali. Siamo stati bombardati, perché, come dice lei, “tutti fanno contenuti, ora”. E questo è un altro problema da considerare, in questa nuova fase della vita dei musei. Con la riapertura, le aspettative parlano di più occasioni di eventi in persona, meno oceani digitali in cui sguazzare, e soprattutto una qualità più elevata.
A New York, i musei sono stati in grado di riaprire al 25% della capacità quest’autunno, e ora sono tornati a pieno regime, ma i visitatori devono prenotare il loro ingresso. Introdotto durante la pandemia, l’uso delle entrate a tempo per accedere alle mostre potrebbe durare una volta che il periodo di emergenza è finito. “Prenotare una fascia oraria dà a ogni visitatore un’esperienza migliore. Penso che sarà qualcosa che tutti i musei manterranno”.
Rispetto alla musica, al teatro e alla danza, i musei sono fortunati, “perché siamo aperti”, dice Wong. Per chi lavora in ambito culturale, “il vero test sarà come la gente reagisce a Broadway: è una situazione in cui sei letteralmente seduto accanto a qualcuno per due ore e non puoi muoverti”. I musei sono diversi: “il vantaggio di uno spazio museale è che ognuno è responsabile del proprio corpo. Se vedo una folla davanti a me, mi allontano”.
È qualcosa che ho avuto modo di apprezzare personalmente al New Museum, nella sede progettata da Sanaa inaugurata nel 2007, soprattutto nella mostra di WongPing, non completamente vuota, ma nemmeno troppo affollata. L’artista di Hong Kong è un regista, e quattro dei suoi film d’animazione sono mostrati a rotazione in uno spazio che Wong definisce con un aggettivo appropriato, “generoso”. “È importante creare spazi generosi”, dice. E in quello spazio troverai sempre un gruppo di persone che guardano il film, sdraiate su un tappeto o su dei bean bag; da lì si sposteranno al secondo piano, dove c’è la grande mostra dedicata al lavoro della seminale artista americana Lynn Hershman Leeson, che ha predetto la nostra ossessione per la tecnologia già negli anni 70, o andranno al piano superiore, dove The worm, troneggia nella monografica dedicata a Ed Atkins: nel film d’animazione in CGI viene reinterpretata un'intervista dell’artista britannico a sua madre. “Il Covid ha certamente influenzato il lavoro presentato qui al museo, se consideri che la conversazione di Atkins con sua madre è avvenuta durante la pandemia”, mi racconta Wong, sottolineando che le mostre in corso erano inizialmente previste per l’anno scorso, e si sono quindi evolute durante il lockdown. “Atkins ha deciso di ripensare e riformulare”.
Siamo onesti, ci si può facilmente annoiare parlando con gente che lavora nell’industria museale; è come se le loro ambizioni culturali, invece di amplificare la loro percezione delle cose, li avessero tagliati fuori da quello che fa la gente normale, il cibo, le bollette mensili, i concerti, la vita nel suo senso più ampio, in generale. E sto parlando di quella ambiziosa decadenza così ben ritratta in alcune scene di The square, il film satirico di Ruben Östlund sulla vita di un curatore che ha vinto a Cannes qualche anno fa.
Ma tutto questo non vale per Karen Wong, una donna curiosa e brillante, che questo agosto lascia il New Museum dopo nove anni per fondare Guilty by Association, un’organizzazione che si concentrerà sugli artisti non ben rappresentati.
È importante creare spazi generosi
In una giornata assolata, caldissima, seduti all’aperto, parliamo di Kombucha, una bevanda onnipresente a New York, e del perché per Wong il suo largo consumo sia un segno di una più ampio “emergere del benessere negli attuali stili di vita”; dei codici QR e di come siano diventati popolari da un giorno all’altro, tanto che ora è più normale inquadrarne uno con il proprio telefono, che prendere in mano un pezzo di carta o una brochure: “i codici QR sono in giro da un decennio”, dice, “tutti pensavano che fossero brutti, e poi i ristoranti - non le istituzioni culturali! - hanno creato l’adozione di massa, e ora tutti li vogliono”; sulla prossima Triennale 2021 al New Museum, che riunirà artisti da tutto il mondo, con tutta l’incertezza dovuta alle restrizioni di viaggio; e ancora, su Broadway e Netflix e i musei: nelle parole di Karen Wong, i confini tra quelle che definiamo belle arti e arti performative, tra domini digitali e fisici, e l’opposizione che vediamo tra eventi fisici e spettacoli su YouTube, svaniscono in una conversazione fluida, dove il museo è un microcosmo che ha bisogno di un quadro più grande in cui riflettersi per prendere vita.
La stessa distinzione tra arti che abbiamo usato finora, probabilmente non troverà più un senso, perché si creeranno nuove convergenze: e così, nel grande puzzle dell’arte, è giunto forse il momento di prendere i pezzi, scambiarli, sostituirli, creare nuove connessioni, e potrebbe anche accadere che l’intero scenario ne esca ridisegnato. Sarà diverso, sarà cambiato, ma sarà ancora arte. E potrebbe essere il futuro.
Tutte le foto, salvo dove diversamente indicato, sono state scattate con una Fujifilm X-Pro3, gentilmente fornita da Fujifilm Italia.
Immagine di apertura: un dettaglio da Twisted, la mostra dedicata all'opera di Lynn Herschman Leeson.