Nel bel mezzo di Kuala Lumpur, una giungla di cemento di mega edifici e torri e giganteschi viadotti e autostrade, epicentro di un conglomerato urbano di quasi 8 milioni di persone, si trova una piccola collina chiamata Bukit Nanas. Contiene l'unica porzione rimasta della foresta pluviale tropicale che c’era qui in origine, prima che la città la inghiottisse completamente. Un frammento di pre-antropocene, una reliquia di un pianeta vergine che non esiste più. La sua storia è quella che associamo istintivamente a un parco cittadino, come se fosse sempre e per forza una fettina dell'ambiente originario del pianeta che emerge come discontinuità in uno scenario costruito dall'uomo.
E così dimentichiamo che i parchi sono stati costruiti da noi.
Il Seneca Village era una comunità per lo più afroamericana, ma popolata anche da immigrati irlandesi e tedeschi, creata in un’area nordoccidentale dell’isola di Manhattan nella prima metà del diciannovesimo secolo. Comprendeva una cinquantina di case e tre chiese, una scuola e un cimitero. Questo aggregato urbano periferico rappresentava per i suoi abitanti un rifugio dalle condizioni malsane di downtown, e dal razzismo che da quelle parti abbondava. Nel 1855, metà degli afro-americani che vivevano a Seneca abitava in una casa di proprietà, principalmente edifici a due piani; su 100 elettori neri a New York, 10 vivevano in quella piccola comunità.
Nel 1857, dovettero tutti andarsene. La città aveva acquisito la terra attraverso l’eminent domain, una legge che prevedeva la possibilità di utilizzare un terreno per uso pubblico, allontanandone i proprietari in cambio di un risarcimento. Il progetto di un nuovo, enorme parco nella metà settentrionale di Manhattan spazzò via il Seneca Village. Central Park fu completato nel 1876, e solo una serie di targhe oggi ricordano che una porzione di quello che è il parco forse più famoso del mondo, una volta era una piccola città (con tanto di cimitero, che fa sembrare tutta questa storia un po’ Shining).
La città che torna grazie alla cultura
Manuel Orazi, collaboratore di lunga data di Domus e curatore della recente (e bella) mostra di Carlo Aymonino alla Triennale di Milano, nonché amico, mi ha suggerito che se mai fossi andato a New York, avrei dovuto assolutamente incontrare Cynthia Davidson, fondatrice e direttrice della rivista indipendente di architettura Log e docente alla Pratt. Ci incontriamo a colazione in un giorno feriale a Midtown, a pochi isolati da Central Park, dove abita - o meglio: abitava prima della pandemia. “Tutti i miei posti preferiti per la colazione, tutti caffè indipendenti della zona, hanno chiuso tranne questo”, dice Davidson, che usa una incredibile precisione nel scegliere ogni singola parola, come se stesse scrivendo oralmente mentre conversiamo a un tavolo all’aperto, sorseggiando caffè freddo (io) e cappuccino ghiacciato (lei) servito in una coppa che, se rovesciata, potrebbe sembrare un grattacielo di Manhattan. L’energia che sento intorno a noi, la città che si muove per le strade, il traffico, l’odore acre dell’estate urbana, e il rumore che è al limite della mia soglia personale, sono il fantasma di quello che questa zona era, spiega Davidson.
Molte persone non sono più tornate in città, o semplicemente non scendono in strada, la maggior parte di loro lavora ancora a distanza. La stessa Davidson vive attualmente nel Connecticut, facendo la pendolare una volta alla settimana in treno – in carrozze sempre più affollate, di volta in volta, racconta. Ha lasciato la città all’inizio della pandemia, nel marzo del 2020. “Tornavo qui per prendere altri libri dall’ufficio, per prendere altri vestiti, qualsiasi cosa, perché si è scoperto che non saremmo stati fuori città per due settimane. Sono 18 mesi, ormai”.
Ha vissuto lo scenario di una città fantasma. “Era spaventosamente vuota quando arrivavo, non c’erano macchine, né taxi, uno o due autobus, nient’altro. Questo accadeva lo scorso aprile e maggio. Potevo guidare dal mio ufficio a dove vivo e non c’era traffico”. Nell’isolato adiacente, spiega, si trova un enorme Hilton Hotel, quello dove Donald Trump ha festeggiato la vittoria del 2016. “È enorme ed è ancora chiuso. Grandi sale da ballo, grandi sale da pranzo. Centinaia e centinaia di stanze”.
Per Davidson, solo la cultura può riportare New York a essere la città che era. “Penso che sia importante che la città stia mettendo molta enfasi sulla cultura”, dice. “Ci sono concerti, i musei sono di nuovo aperti. Ci sono grandi mostre. Le gallerie sono rimaste vive”. Quando arriva dal Connecticut, mi dice, va a vedere una mostra, perché è quello che le manca del vivere qui. “Questo è ciò che è così prezioso della città. Penso che la cultura sia ciò che ci restituirà la città”.
Prendi quella bici!
Citi Bike è un po’ più costoso della metropolitana, a $3.50 per una corsa di 30 minuti. Il pass giornaliero è di 15 dollari, e c’è un’opzione annuale. Essenzialmente ci sono due modelli di biciclette, che differiscono solo per le dimensioni del portapacchi anteriore, e c’è una flotta limitata di e-bike, gettonatissime quando si deve percorrere un ponte, perché passare da Brooklyn e Queens a Manhattan o viceversa è un po’ come pedalare in collina. Una manopola sul manubrio destro permette di scalare marcia, mentre il campanello è a sinistra. I telai sono step-through, quelli che in Italia chiamiamo “da donna”.
Mascherine!
Sono obbligatorie nella metropolitana e sui mezzi pubblici. Non sono richieste all'interno di negozi e ristoranti, se si è vaccinati. Molte persone le usano comunque.
La prossima settimana ho un appuntamento alla Pratt University e mi hanno scritto per avvisarmi che hanno appena aggiornato il regolamento del campus: dovrò indossare una mascherina.
Dal 18 luglio, a Los Angeles è stato reintrodotto l’obbligo di mascherina al chiuso.
Il 30, la Broadway League ha annunciato che agli spettatori sarà richiesta la vaccinazione e di indossare la mascherina all’interno dei teatri.
Una passeggiata verso il futuro delle città
Da Little Island a Hudson Yards, l'area attraversata dalla High Line si è trasformata molto velocemente e in maniera radicale, diventando nel giro di un decennio una città nella città.
La High Line è un esempio molto efficace di architettura del paesaggio, tuttavia è fondamentalmente compromessa dal suo motivo principale, che è quello di gentrificare la città (Reinhold Martin)
Destinazione paradiso
Ogni notte, ancora con addosso il jet-lag dopo il viaggio da Milano, sgattaiolo fuori dal mio appartamento di Bushwick per raggiungere il supermercato più vicino. Vagando tra muri erette con variopinte confezioni di cibo, sento una canzone che pensavo fosse scomparsa insieme alla mia adolescenza. La canta Gianluca Grignani, la pop-star famosa negli anni Novanta per la sua musica e da allora in poi per le sue dipendenze. Per me è un cortocircuito nello spazio e nel tempo.
Instagrammo immediatamente quello che sta accadendo.
La sera dopo torno, e c’è un'altra canzone italiana, Laura non c'è di Nek. Le sere successive, durante i miei brevi viaggi al mercato, ascolto altre oscure canzoni sanremesi degli anni ’70 e ’80.
Succede ogni notte, ma solo di notte. Guidato dalla paura di rompere questo incantesimo, non chiedo mai il perché a nessuno.
L’arte va al parco
“sono seduta su una ringhiera tra la 66 e il riverside boulevard”, mi scrive via mail senza usare maiuscole la curatrice e gallerista Karin Bravin pochi secondi prima dell’ora prevista per il nostro appuntamento; il giorno prima aveva condiviso sempre via mail una mappa del punto esatto dove incontrarsi. Riverside Park è una grande area verde che costeggia l’Hudson, e incontrarsi qui può effettivamente creare più equivoci che andare direttamente a Chelsea alla BravinLee programs, la galleria che Bravin gestisce con il suo partner John Post Lee. Ma quest’estate la galleria si è spostata all’aperto, a Riverside Park, con una mostra di 16 installazioni site-specific e altri dieci progetti di bandiere e stendardi.
Nel prossimo episodio: l’evoluzione dei musei, (Karen Wong, New Museum), coscienza a livello della strada (Food NY), un piano terra tutto nuovo (ODA), lo stagno di Manhattan e altro.
Tutte le foto sono state scattate con una Fujifilm X-Pro3, gentilmente fornita da Fujifilm Italia, salvo dove diversamente indicato.