L’iconografia del design italiano del periodo d’oro, da Albini a Zanotta, è tanto nota da costituire una specie di vocabolario autoreferenziale. È diventata materia di un gioco di società le cui carte vengono continuamente mescolate e rimescolate in cerca di nuove corrispondenze e di nuovi schemi. Un gioco alchemico cui hanno partecipato via via curatori della Triennale di Milano e che va avanti almeno dall’istituzione del Compasso d’Oro.
A questo pantheon vengono ammessi nuovi oggetti, ma nessuno ne viene espunto. Inevitabilmente, con l’uscita dall’èra analogica, il loro significato si è trasformato. Sono diventati, da utili oggetti che definivano il nostro modo di vivere, una specie di repertorio archeologico che ci dice molto di com’era la vita di una volta. Hanno perso il peso dell’utile ma rimangono oggetto di studio, un po’ come il greco antico. Analizzare le icone del design italiano significa ormai definire noi stessi e confermare i nostri gusti tanto quanto esplorare i molteplici significati di questi artefatti. Andiamo alla ricerca dei pezzi in grado di rendere manifesto il nostro senso critico. Un esercizio particolarmente impegnativo, dato il cambiamento della situazione dell’Italia, un tempo dominante, ora incerta. Si tratta di oggetti essenziali che definiscono il passato del paese, mentre il suo futuro non appare garantito.