AG Fronzoni si è spento alle cinque del pomeriggio di venerdì 8 febbraio, nella casa di Milano, davanti ai giardini di Leonardo. Il 27 febbraio alle cinque del pomeriggio alle Grazie è stato ricordato come qualcuno che aveva ricercato la bellezza. Il 5 di marzo avrebbe compiuto 79 anni. Il 9 di marzo sessanta dei suoi studenti si sono riuniti in sua memoria. Gli avrebbe fatto piacere sapere che non è passato inosservato il modo in cui ha concluso la sua vita, senza smentirsi, fino alla fine. Silenzioso e inosservato, rabbioso e gentile: come dire, toscano.
Fronzoni nasce a Pistoia nel 1923, arriva a Milano negli anni del dopoguerra. Il suo percorso professionale abbraccia molti ambiti progettuali: grafica, architettura, istallazioni museali, design d’oggetti e di capi d’abbigliamento. Ha convissuto con i grandi del progetto della seconda metà del Novecento. Non ha voluto mai essere considerato altro che un progettista.
Straniero egli stesso a Milano, nel presentare le persone si divertiva a comunicare il loro luogo d’origine, come se fosse un aggettivo della loro attività; come se fosse quella la chiave del mistero. Comincia la sua attività professionale nel 1949, insegna per vent’anni all’Umanitaria di Milano, all’Istituto d’arte di Monza, all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Urbino e all’Istituto di comunicazione visiva di Milano: finché non apre una sua scuola-bottega nel 1982. I corsi erano biennali, gli insegnamenti andavano da come “sedersi a tavola” fino alla conoscenza dell’architettura. Fronzoni conosceva quella di Giuseppe Terragni e sognava quella di Mies van der Rohe. La pedagogia era “imparare lavorando”.
Quando gli veniva chiesto cosa s’insegnava nella sua scuola rispondeva: a progettare in 2D e in 3D. Venivano analizzati concetti di grafica, ed era inclusa la lettura del giornale. Si soffermava per esempio su notizie quali: “Il Papa benedice l’ultimo modello Ferrari uscito da Maranello”, incluso il commento sulla foto. Gli studenti venivano a sapere della scuola per bocca di altri, i corsi non erano pubblicizzati e coloro che vi arrivavano erano sempre sui vent’anni, in generale stranieri.
Come succedeva d’abitudine alle questioni fronzoniane, tutti gli eventi avevano una duplice qualità: allo stesso tempo casuali e inequivocabili, funzionali e astratti, nati da una necessità ma espressione di una totale libertà di scelta. La provocazione cui sottoponeva ogni azione obbligava di per sé a una riflessione, esercizio che praticava costantemente e attraverso il quale filtrava ogni gesto quotidiano. Tutto era materiale di analisi progettuale. Era questa la sua utopia. Amava il linguaggio e il pensiero di Buckminster Fuller. Entrambi venivano dalla tipografia e dal segno. Quando parlava di Fuller gli veniva in mente un suo conterraneo, Leonardo da Vinci, e diceva: “Morì alla corte francese progettando piani urbanistici. È l’architettura la madre suprema ma oggi al di sopra di tutto spicca la multidisciplinarità. Questa è l’immagine più attuale”.
Da giovanissimo aveva abbracciato ideali socialisti e ne aveva compreso l’infinito campo di applicazione. Aveva capito da dove era partito, si era fatto un’idea ben precisa della strada che voleva prendere a livello personale e collettivo.
Con rassegnazione diceva che il Bauhaus non era mai arrivato in Italia. La poetica del suo lavoro di grafico rievoca l’opera degli artisti della poesia concreta e visiva degli anni Cinquanta e Sessanta. “Occorre posare le mani sul corpo caldo della poesia”, suggeriva. In armonia con la migliore tradizione classica, considerava l’istruzione come un allenamento dell’atto del pensare e il pensare come un’introduzione alla conoscenza. Nella sua scuola-bottega si soffermava poco sulla tecnica, ma le sue “istruzioni sull’essere umano” erano provocatrici, specifiche e incisive. Facendo riferimento alle sue origini: “Vengo dal lavoro”, sottolineava. “L’uomo medio è stupido, occorre liberarsi dalla necessità e non avere paura dello spazio”.
Credeva in un progetto di modernità e aveva deciso di prendervi parte attraverso la visualità. Aveva capito con lucidità il bisogno di distinguere, differenziare, scegliere. Riconobbe come sola condizione possibile il movimento in avanti. Si arrischiò a confondere Dio con l’Uomo e a cercarlo in un quadrato. Alla realtà attribuiva un valore fisico e a se stesso, progettista, una responsabilità trasformatrice. Aveva fatto dello spazio la sua materia e del vuoto una pratica possibile. In lui tutto era forma. Sceglieva scrupolosamente le parole come un artigiano sceglie i suoi strumenti di lavoro, con specificità e con profonda consapevolezza delle conseguenze che provocavano. Decise di riferirsi alla realtà – allo spazio – con un verbo: “Incidere su di essa; non solo è possibile ma è anche obbligatorio”. In questo senso era anche un politico.
Dal suo razionalismo aveva escluso alcune logiche e nel labirinto aveva previsto alcuni sentieri senza uscita: quello dell’accumulo di tutto ciò che non fosse conoscenza, quello dell’immoralità dello scarto, quello dell’arricchimento economico individuale come obiettivo. A quest’ultimo aveva deciso di opporsi esagerando, sfidandolo senza indifferenza e denunciandone le volgarità, con quell’atteggiamento cristiano birichino e con parsimonia orientale. “Ci sono riuscito! Sono arrivato agli anni Settanta senza essere proprietario di nulla!”, diceva. La sua eredità: un magnifico archivio. In lui tutto era scelto in modo naturale, dall’intonazione della voce alla bontà. Entrambe gravi e pedagogiche. Gli piaceva essere identificato come un trasgressore. C’è riuscito resistendo, più che disobbedendo. Era consapevole dell’enorme istruzione necessaria per praticare l’anarchia. Vedeva la vita in bianco e nero e in tutte le sue sfumature; ammetteva di avere un particolare debito per il genere umano femminile dai capelli rossi. Il suo italiano era raffinato e succinto. Rispondeva lui stesso al telefono con un secco “Chi parla?”.
Diceva che una società la si può giudicare dallo stato delle sue carceri. Credeva nel sociale più che nella società. Tra i giovani godeva di un successo strepitoso. Ironico, acuto e con un gran senso del pudore, fu uno dei rari casi di maestro riconoscente che non mitizzava il passato. Nella sua scuola-bottega tutti passavano, transitavano, si fermavano; nessuno rimaneva più del previsto e nessuno se ne andava per non ritornare.
Una volta sola, attraverso un annuncio su un giornale cercò un assistente. Trovò Myrna Cohen, arrivata di recente dall’Egitto. La formò e si presero cura l’uno dell’altro per quarant’anni. Era capace di soddisfare senza illudere. “Il destino dell’uomo” ripeteva, “è stare solo. E di questo destino dobbiamo imparare a diventare esperti”. Come un archetipo di maestro sapeva e avvertiva che le grandi ambizioni costano care. “La forma è la bellezza” diceva “e qualcuno ha detto che salverà l’uomo. Non so se sia vero, ma so che la forma mi è utile, anzi indispensabile, anzi preziosa per inviare un messaggio che è messaggio di pensiero”.
I suoi strumenti di lavoro erano la geometria, il dizionario Devoto-Oli, una riga, una squadra e una matita. Le sue opere sono concetti, non prodotti. Eppure sono esposti in musei, come il MoMA di New York, sono prodotti da fabbriche come Cappellini, si vendono in negozi come Valextra, si abitano in città come Milano, su isole come Capraia, si utilizzano come loghi di imprese. Per lui la città per antonomasia era Venezia, dove i trasporti non si misuravano con l’uomo e le sue costruzioni: insieme si sono misurati con l’acqua. Lavorò a Genova e studiò Londra. Era legato a queste due città da forti affinità elettive. Alla prima dal piacere del reciproco riconoscimento, sintetizzato in un esercizio politico-culturale; alla seconda dall’ammirazione per una città pre-concepita. Guido Giubbini lo associa al periodo più esaltante della cultura della Genova contemporanea. Fu un uomo che preferì la religiosità alla religione e il profano al sacro.
La moda lo corteggiò e fu definito minimalista. Ammetteva che crescendo si ha bisogno di sempre più spazio e che è dovere della società fornirlo; quando questo non avviene, è giusto reclamarlo. Di lui, riferendosi al Fronzoni grafico, l’Enzo Mari artista dice, che, come alcuni tedeschi, confuse religione e scienza. Egli stesso lo scelse come grafico nel ‘68, quando si dovettero convocare gli intellettuali di sinistra, quando bisognava unirsi agli operai della Breda. Così nacque un manifesto con lo scopo di essere un appello pubblico e urbano, con cui si sarebbero tappezzate tutte le strade della città. La provocazione maggiore la subì lo stesso Mari: mancavano poche ore alla dimostrazione e non vedeva nulla per le vie. “Qualcuno mi disse di affacciarmi alla finestra; vidi un poster di un metro per settanta completamente bianco. Mi avvicinai e in un piccolissimo corpo cinque una riga correva lungo la carta”. Si salutavano per la strada una volta al giorno, ognuno credendo di conoscere bene l’altro, entrambi facendo lo stesso sforzo: appassionati, soli e paralleli. Dall’Inghilterra, l’architetto John Pawson lo vedeva europeo e gli ricordava un altro isolano. Finché non lo conobbe non avrebbe mai pensato che potesse esistere uno Shiro Kuramata in versione occidentale: vederlo significava rimanerne abbagliati. Il linguaggio che usavano tra loro per comunicare era quello del silenzio e della reciproca ammirazione. Pawson dice di lui che era un benchmark: e che come a Kuramata gli piaceva negare lo scintillare delle sue opere. Acutezza inglese, riconoscerne la discrezione e l’ironia.
Quando dal suo racconto pare emergere un giapponese quasi carnale, un italiano quasi zen e un inglese quasi emotivo, si può essere certi di trovarsi di fronte all’originale paradosso che i tre incarnavano così egregiamente.
Noi ci siamo conosciuti e riconosciuti. In realtà io arrivavo dall’architettura, insieme siamo passati per un breve momento attraverso la grafica.
Tra idee e ironie progettammo una rivista. Io la vedevo tridimensionale e lui si entusiasmava; lui ricostruiva i contenuti e io lo ammiravo. Come conclusione diceva: “Non abbiamo cambiato il mondo, però abbiamo graffiato noi”.