Nel 2010 stavo curando un libro per il quale avevo chiesto l'intervento di Richard Sapper – era il testo critico d’introduzione alla mostra “Industrious design” di Odoardo Fioravanti in Triennale. Eravamo andati a trovarlo almeno tre volte prima di prendere il coraggio di chiedergli quello sforzo: Sapper non amava dissertare di design, men che meno scriverne, a maggior ragione nel caso specifico di un giovane che aveva visto tre volte, e per di più per una mostra ospitata in un museo che non gli aveva mai dedicato neanche una stanza di retrospettiva... Ero molto pessimista. Però eravamo riusciti a estorcergli la promessa che lo avrebbe fatto: “tornate tra due settimane”.
Per questa ragione, quando ci si trova per le mani un libro come questo scritto da Jonathan Olivares, oltre alla nostalgia per quella figura che ci è venuta a mancare e all’invidia per il privilegio di aver immortalato con tanta precisione, cura e tempismo, il suo lavoro straordinario, si prova soprattutto un senso di gratitudine per la fatica e la pazienza che sta dietro al “fare”, di autore e intervistato, in queste 50 ore di conversazione generosamente pubblicate a nostro beneficio.
Non lo nasconde Olivares questo sforzo di sostenere una ricerca durata otto anni e che sicuramente oltre che i viaggi tra Europa e America, deve essergli costata anche una grande e costante pazienza e delicatezza d'approccio. Ma dietro ogni riga s’intuisce che più forte di tutto, alla fine, è il piacere e la soddisfazione di chi sa di essere oggetto di un grande privilegio, un vero onore e una lunga preziosissima lezione privata di design data da uno dei maestri più eccezionali che abbiamo avuto.
Benché Sapper sia stato uno dei progettisti più attenti alle persone e benché ogni suo oggetto abbia un’aneddotica affascinante e più di una spiegazione speciale, non si è mai premurato troppo di raccontarlo in giro.
Intanto c’è la biografia, che anche molti appassionati trascurano o riconoscono solo superficialmente nella formazione di filosofo del maestro tedesco, e che invece vede una fusione tra antiche origini, luoghi mitici, famiglia, gioco, affari e lavoro che poi si ritrova sapientemente mescolata nella cronologia iconografica della seconda parte. Ci sono tantissimi episodi curiosi, dalle avventure del nonno col caffè in Guatemala allo zio tutore, al padre pittore. Oppure quello della “galeotta” segretaria de La Rinascente, dove Sapper lavorò per un certo tempo e che, a suo dire essendo innamorata di lui, fece provvidenzialmente il suo nome a Tullio Bolletta di Lorenz che era in cerca di un designer che lo aiutasse a vincere un Compasso d’Oro... O del suo insospettabile amico Ettore Sottsass, che lo raccomandò ad Alberto Alessi che, in verità, era in cerca di un designer per un servizio di posate, che arriveranno solo nel 1995. E ancora, di Gismondi e delle sue serrate relazioni più o meno educate con gli uffici sviluppo delle aziende. Una sorta di romanzo del design. E, poi il trattato di design, in cui c’è tutto Sapper: raccontare un computer portatile partendo da un teddy-bear, teorizzare in maniera adamantina epigrammatica che cosa sia la bellezza, ricostruire un’antropologia dei bisogni umani mentre si beve un bicchiere di Punt e Mes.
Se questo non bastasse, infine, il libro sia nella parte di testo che nella ricostruzione cronologica dell’opera del maestro in conclusione, è una storia del design industriale e una promessa d’immortalità per questa che, forse mai come nel caso di Richard Sapper, si merita il titolo di disciplina.