Nel 1961 un gruppo di imprenditori dell’arredamento, subito ribattezzati “capitani coraggiosi”, tenne a battesimo un esperimento mai visto al mondo: un Salone del mobile, dove presentare ogni anno il meglio della creatività e dell’eccellenza della filiera dell’arredamento del Made in Italy. Quattro anni dopo, nel 1965, Domus dedicò per la prima volta al Salone, che in quell’anno tenne il suo primo evento collaterale, una mostra sul design. Fu una consacrazione, che ogni anno si è rinnovata fino a poche settimane fa, quando l’epidemia di Coronavirus ha rimandato l’apertura della 59a edizione, che avrebbe dovuto essere inaugurata in questi giorni. Una vera ferita, in una contingenza di massima criticità e tristezza, non solo per l’industria del mobile ma per l’identità italiana, la cultura, la tradizione. E anche al soft power italiano, quella capacità di creare, vivere e pensare che il nostro paese esercita sul mondo. Ne parliamo con Claudio Luti, imprenditore del design e presidente del Salone, ma anche mente visionaria della strategia di affermazione del design italiano a livello globale.
“Passione, visione, azione. Così rilanceremo il design”. Parla Claudio Luti
Per il lancio dello speciale Domus for Design il direttore editoriale Walter Mariotti intervista il presidente del Salone sugli scenari del Made in Italy e del design dopo il Coronavirus.
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Perché il Salone e il Design sono così importanti per l’Italia?
Perché noi siamo l’Italia e il design è parte del nostro dna. Il Salone è diventato il Salone solo perché noi siamo noi, un coacervo di creatività, professionalità, efficienza, flessibilità e cultura che in questo settore è unico al mondo. Mi permette un ricordo personale?
Prego.
Io ho fatto economia e commercio e poi dopo esperienze professionali davvero straordinarie, nella moda, ho acquistato un’azienda di design. E lì ho subito capito che per gestirla non sarebbe bastato una competenza economica o strategica, occorreva mettersi in gioco, imparare ad ascoltare e sentire i creativi, ma soprattutto avere l’emozione, vivere una comunità. Ecco, per il Salone è la stessa cosa: non solo strategia commerciale e finanziaria ma una meravigliosa e delicata combinazione di creatività, organizzazione, bellezza, lavoro è frutto di una complessa strategia. Per questo il vuoto di questi giorni disorienta.
Vuoto e vertigine. Per rispondere a queste sensazioni, Domus ha voluto lanciare un manifesto, per sostenere il design e la sua filiera ma soprattutto un’identità culturale, una visione del mondo, un modo di essere e dispensare che fa dell’Italia l’Italia, che vende Made in Italy in tutto il mondo ed attira a Milano, una volta all’anno, quasi mezzo milioni di persone da tutto il mondo. per vedere attraverso il design che cosa è l’Italia.
È un’iniziativa molto importante, che s’iscrive in un percorso che stiamo facendo come aziende del design e come Salone, che resta una sintesi di tante realtà che devono ripartire. Per i loro bilanci d’impresa, per lo spirito che le anima ma anche per riportare a Milano quella magia che appunto animava la settimana del design i visitatori da tutto il mondo gli eventi culturali e le inaugurazioni,
La perdita economica è enorme. Si parla di 1,3 miliardi di mancato indotto per il settore.
È così. Anche l’ultimo bilancio del Salone ha solo una voce: i costi.
Perché noi siamo l’Italia e il design è parte del nostro dna. Il Salone è diventato il Salone solo perché noi siamo noi, un coacervo di creatività, professionalità, efficienza, flessibilità e cultura che in questo settore è unico al mondo
Che cosa chiedono le aziende? E che cosa dovrebbe fare il governo?
Penso si debba sempre rispettare gli altri, perché dall’esterno è sempre facile criticare. Quindi aspettiamo e rispettiamo quello che il governo sta decidendo, mentre occorre ribadire che le aziende hanno bisogno semplicemente di ripartire, di lavorare. Occorre avere una visione, occorre fare in fretta, occorre riuscire a tornare nei paesi dove abbiamo affermato la nostra identità. Prenda la mia azienda, Kartell: noi vendiamo in 140 paesi, un vantaggio strategico che non vorrei perdere. Perché non sarebbe una perdita solo per la mia azienda ma per il paese e per l’identità culturale italiana.
Cosa serve per ripartire?
Oltre alla decisione politica serve visione, programmazione e valorizzazione della filiera. Perché vede il design italiano, ma anche la moda e la meccatronica non sarebbero possibili senza la combinazione tra filiera degli artigiani e mondo creativo che vanno salvaguardati e supportati. Noi lavoriamo con entrambi e questo ci consente di realizzare prodotti e progetti utilizzando materiali diversi e accostandoci a segmenti diversi del mercato passando dal retail al contract con servizi su misura. Rispettando i tempi e i budget.
Un meccanismo unico e bellissimo.
Certamente, ma anche fragile perché composta da tante piccole realtà familiari che rischiano di andare in sofferenza. Questo sarebbe molto grave perché il made in Italy senza di loro non può esistere. Riusciamo a realizzare certi prodotti solo grazie all’impegno di tutti, dai grandi designer e architetti fino ai piccoli imprenditori e artigiani. Le racconto un’altra cosa personale. Quando l’ultima stagione Starck mi ha proposto di lavorare il legno, io non sapevo come muovermi perché non conoscevo la materia a livello industriale, la mia esperienza si limitava alla mia barca (ride). Ce l’ho fatta solo grazie alla filiera del made in Italy, e alla nostra capacità di poter adattare i processi produttivi dal mondo della plastica a quello del legno. È questa la differenza del made in Italy che fa il design italiano.
La filiera come è messa?
Se non riaprono le aziende saranno costretti a chiudere.
Cosa chiedono al governo?
Non tanto aiuti quando lavoro. Vogliono riaprire.
Per far fronte al coronavirus l’Italia ha scoperto smart working e vita digitale. Come la vede lei applicata al design?
Sono favorevole. Il digitale rende virtuale quello che non può essere fruibile realmente e in questo periodo è certamente di supporto. Nella relazione tra imprese e clienti . Dopodiché, niente può sostituire l’esperienza diretta. Il design va visto e toccato, il Salone va vissuto.
Dobbiamo essere uniti, credere in valori comuni. Solo così possiamo sperare di farcela. Senza dimenticare che l’Italia custodisce un grande patrimonio di cultura e la grande capacità di innovare
La creatività scomparirà dopo il Coronavirus?
Non credo, perché noi siamo l’Italia e la creatività fa parte di noi. Però è un fatto che il Covid-19 ha cambiato il nostro modo di pensare, di spostarci, di lavorare. Per questo spero che prima possibile potremo riprendere a dialogare, consegnare le nostre merci e avviare i nostri macchinari, perché questo è il modo di mettere a disposizione della comunità globale la nostra forza: la creatività.
Quali settori vede prioritari?
Sarà per deformazione, ma penso che dovremo riflettere sulle nuove forme dell’abitare, del lavorare e dell’accoglienza. Niente sarà come prima. Noi siamo fabbriche creative, dobbiamo supportare le emozioni delle persone, e impegnarci a trasformare questo momento di difficoltà e di crisi in una opportunità di cambiamento.
Lei è ottimista o pessimista?
Spaventato se penso all’Italia, alla burocrazia, al debito. Ma sempre ottimista. Noi italiani nei momenti di difficoltà tiriamo fuori sempre il nostro meglio. Per questo la politica e l’Europa devono sostenerci ma prima ancora per questo dobbiamo poter tornare in azienda a lavorare rispettando le nuove regole. Serve una lungimiranza che qui c’era nel Dopoguerra. Ecco, serve un’idea di comunità. Dobbiamo essere uniti, credere in valori comuni. Solo così possiamo sperare di farcela. Senza dimenticare che l’Italia custodisce un grande patrimonio di cultura e la grande capacità di innovare.