Tutte le definizioni del design

Di cosa parliamo quando parliamo di design? Lo spiega per Domus l’autore di Contro l’oggetto, il curatore e storico dell'arte Emanuele Quinz.

In una delle sue ultime interviste, Ettore Sottsass dichiara: “tutto è design, è una fatalità” [1].

Nel lontano 1972, il sociologo francese Jean Baudrillard, aveva utilizzato più o meno le stesse parole: “Nulla sfugge al design: è la sua fatalità” [2].  Ma se tutto è design, e nulla gli sfugge, cos’è il design precisamente?

Siamo sicuri di sapere cos’è il design, siamo capaci di darne una definizione? Il problema è proprio in quell’una. Perché oggi ci troviamo davanti a una proliferazione di definizioni, che indicano l’estensione esponenziale dei campi di applicazione del design. Sempre di più il design appare come un territorio senza limiti, dai tratti nebulosi, a volte contraddittori. 

Fino alla fine degli anni ‘80, il termine design è sinonimo di disegno industriale, soprattutto in Italia, dove si è radicata una cultura specifica della progettazione, profondamente legata all’espansione industriale a partire dal dopoguerra. Nel 1971, in Artista e Designer, Bruno Munari spiega che il “il designer è un progettista dotato di senso estetico, che lavora per la comunità” [3]. In quegli anni, le frontiere con l’arte, l’architettura, l’artigianato e l’ingegneria sono tracciate con tratti netti: l’oggetto, il metodo, gli strumenti, definiscono il profilo del protagonista assoluto del progetto della modernità, dello sviluppo della nuova società delle macchine e delle tecnologie, ma anche dei consumi e della comunicazione di massa. In fondo, anche le correnti radicali degli anni ‘60, con le loro strategie critiche e concettuali, non negano questa definizione, ma la confermano, stigmatizzandone le derive produttivistiche e totalitarie.

Nel 1970, in Design for a Real World, Victor Papanek descrive il design come una disciplina strutturata che opera per la trasformazione del mondo abitato dall’uomo, modificando l’ambiente naturale e le infrastrutture sociali. All’epoca, la definizione positivista dell’economista Herbert Simon è adottata all’unanimità [4]: il design serve a rendere il mondo migliore, a migliorarne le condizioni di abitabilità, a dare confort e bellezza alla vita quotidiana. Proprio perché consapevole del suo ruolo, Papanek è durissimo con il design. Il suo libro-manifesto inizia così: “Fra tutte le professioni, una delle più dannose è la progettazione industriale…” [5]

Fondate sulla connessione profonda che Papanek, e altri pionieri come Maldonado e Yona Friedman, stabiliscono tra design, ecologia e sviluppo sociale, si diffondono a partire dagli anni ‘80 delle pratiche partecipative e responsabili, dando luogo a un vero e proprio ethical turn del design. La focale si allarga: le strategie di progettazione includono progressivamente la pianificazione delle implicazioni ecologiche e sociali dell’intero ciclo di vita degli oggetti, dalla produzione al trasporto, dalla distribuzione al consumo, allo smaltimento. Il design è visto come il vettore di una rivoluzione del nostro stile di vita, capace di invertire la rotta dell’attuale modello di sviluppo, basato sull’innovazione permanente: design come progetto anti-industriale. Da queste tensioni nascono l’eco-design, l’eco-concezione, il sustainable design, ma anche il design for social innovation, teorizzati, tra gli altri, da Ezio Manzini e John Tackara. 

James Auger, Prove del DIY Gravity Battery al Madeira Interactive Technologies Institute, 2017. Courtesy James Auger

A partire dagli anni ‘90, con il passaggio alla società dell’informatica ubiquitaria e delle reti telematiche, emergono ancora altre definizioni del design. Con il digitale, il mondo diventa informazione, l’oggetto diventa interfaccia. Come spiega il designer canadese Bruce Mau con il suo progetto-manifesto Massive Change, “passando dal design del prodotto alle economie della transizione, dal graphic design alle economie dell’informazione, il design si riconfigura come attività interdisciplinare, distribuita, plurale e collaborativa” [6]. Definendo le infrastrutture e le interazioni, il design incarna sempre di più una forma di progetto “globale”, invisibile e diffuso, che condiziona i nostri comportamenti, configura la nostra coscienza, definisce gli spazi e i tempi della nostra esistenza e delle nostre relazioni.

Allora, in definitiva, come si può definire oggi il design? E si deve ancora definire? O possiamo restare sul vago, limitarci a dire che non esiste una ma molte definizioni, e che va bene così, che ognuno ha il design che vuole, il design che si merita?

Oggi, ci troviamo a fronteggiare una costellazione di definizioni a geometria variabile, in continua espansione. Definizioni che non indicano più solo nuovi metodi operativi o terreni applicativi, ma anche approcci dissonanti, legati a tensioni sociali, a prospettive critiche, politiche, di genere o post-coloniali. Sempre di più le definizioni instituzionali del design, la loro tradizione basata non solo sul progetto della modernità, ma sullo sviluppo della società capitalista e della globalizzazione, sono sottomesse a una minuziosa decostruzione, a delle forme di radicale decolonizzazione. Queste tensioni rivelano il carattere di pratica sociale del design, il suo impatto simbolico, oltre che funzionale: più che come una tecnica, il design appare come uno strumento di costruzione identitaria. Sempre di più, tutte queste tensioni, acquistando visibilità, rivelano uno stato di crisi della disciplina e spingono verso una definizione allo stesso tempo più inclusiva e più pluralista del design.

Ianis Lallemand & Co-de-iT, Unspecified Clay, 2016-2017
. Sistema sperimentale di stampa 3D robotizzata per la produzione di ceramica. Immagine © Ianis Lallemand

Allora, in definitiva, come si può definire oggi il design? E si deve ancora definire? O possiamo restare sul vago, limitarci a dire che non esiste una ma molte definizioni, e che va bene così, che ognuno ha il design che vuole, il design che si merita?

O possiamo obiettare che, in fondo, la definizione non è che una questione di specializzazione – di un mercato, di un profilo professionale, di un settore produttivo, di un dominio accademico… – e che nella vita vera, non importa, se ne può fare a meno.

Non credo. Proprio per la sua forza operativa, per la sua capacità di agire, il design rappresenta un campo di forze fondamentali per la trasformazione della società. Non si tratta semplicemente di progettare nuove forme o nuovi oggetti, ma di gestire – per gli ottimisti – una transizione diventata permanente, o – per i pessimisti – la sopravvivenza in un mondo che sembra inesorabilmente in perdita e in declino (anche a causa del design).

È proprio nel momento in cui la transizione diventa crisi, in cui il declino impone una sopravvivenza, che la definizione del design, del suo ruolo, del suo contributo, delle sue responsabilità, dei suoi limiti, diventa fondamentale. È proprio nel momento in cui diventa difficile, se non impossibile, definire il design, che bisogna farlo.

Emanuele Quinz (Bolzano, 1973) è storico dell’arte e curatore. Professore associato all’Université Paris 8 e ricercatore associato all’EnsadLab (École nationale supérieure des Arts Décoratifs), le sue ricerche esplorano le zone di frontiera tra le diverse discipline artistiche.

Immagine di apertura: Coltellino svizzero

[1]:
Ettore Sottsass: Tout est design, c'est une fatalité, intervista di Michèle Champenois, Le monde, 29 août 2005
[2]:
Jean Baudrillard, Pour une critique de l’économie politique du signe, Paris Gallimard, 1972, p. 248
[3]:
Bruno Munari, Artista e designer, Bari, Laterza, 1971, p. 28
[4]:
“Everyone designs who devises courses of action aimed at changing existing situations into preferred ones”, Herbert A. Simon, The Sciences of Artificial (1969), Cambridge Mass. MIT Press, terza edizione aggiornata 1996, p.111
[5]:
Victor Papanek, Progettare per il mondo reale. Il design: come è e come potrebbe essere, Milano, Mondadori, 1974, p. 7
[6]:
Bruce Mau, Institute without Boundaries (a cura di), Massive Change, London, Phaidon, 2004, p.16

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