Nel 1988, il MoMA di New York ospitava “Deconstructivist Architecture”, curata da Philip Johnson e Mark Wigley, una mostra che avrebbe influenzato profondamente lo sguardo sull’architettura contemporanea a venire. Esponeva le opere di sette architetti, tra i quali Frank Gehry, Daniel Libeskind e Rem Koolhaas. Unica donna presente nel piccolo e selezionato consesso: Zaha Hadid (Baghdad, 1950 - Miami, 2016). Sarebbe stata poi la progettista capace di perseguire con maggiore continuità, nel corso di oltre un trentennio di attività professionale, il grande mito della complessità ‘decostruttivista’: non solo quella appariscente delle forme irriducibilmente anticartesiane e vorticosamente piranesiane, ma forse ancor più quella delle procedure progettuali, delle tecnologie costruttive, delle dinamiche di interazione con lo spazio. Coerentemente, le visioni spaziali catturate su quadri neo-suprematisti dall'architetto anglo-irachena vengono elaborate attraverso sofisticate tecnologie parametriche di progettazione, costruzione e gestione degli edifici, che hanno fatto di ZHA uno standard di riferimento nell'applicazione del Building Information Modeling: si tratti di una calibrata macchina museale in Italia (MAXXI, Roma, 2010), un nuovo monumento per la cultura azera (Heydar Aliyev Center, Baku, 2012) o un edificio-onda per nuotare nella città (London Aquatics Centre, 2012). A fronte di ogni tema affrontato dallo studio, l’uso plastico delle forme incorporate nel bianco e nel cemento rilancia, nel costante equilibrio di calcolo e visione, la grande tradizione strutturale testata artigianalmente dai grandi ingegneri e architetti del Novecento, portandone nel futuro il carico di memoria.