“Non sono un opinionista, sono un fotografo. Come fotografo vedo l’Italia di oggi che, per certe cose, è meglio di quella di ieri, mentre per quanto riguarda gli uomini è molto peggiorata. Molto”. C’è qualcosa di lirico in Gianni Berengo Gardin, un quid che lo rende molto di più di un fotografo come lo erano Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, ai quali questo veneziano, nato per caso a Santa Margherita Ligure, molto somiglia.
L’occhio della società italiana
Uno dei più importanti fotografi italiani, Berengo Gardin, ci parla della sua esperienza professionale con Olivetti e del futuro della fotografia, tra digitale e specializzazione.
View Article details
- Walter Mariotti
- 18 novembre 2020
Carisma. Approccio. Cultura. Umiltà. Le ragioni possono essere molte. Forse però la più vera è che a questo giovane appena novantenne che nell’ultimo mezzo secolo ha viaggiato in ogni angolo del mondo accumulando un archivio sterminato che in piccola parte si può vedere in queste settimane in una retrospettiva voluta dall’Archivio Storico Olivetti, la cosa che davvero è interessata, l’unico soggetto, il fuoco prioritario dei suoi scatti, è la società italiana. La sua trasformazione, i suoi tumulti interiori, la luce e, soprattutto, le ombre di quel rapporto particolare che la società imprime sul territorio. Una chiave di lettura di cui Berengo resta uno dei maestri del Novecento.
“Gianni Berengo Gardin e la Olivetti”, la mostra curata da Margherita Naim e Giangavino Pazzola, lo dimostra una volta di più. Un’indagine in 70 foto d’epoca dove l’intensità del rapporto tra il fotografo e l’azienda di Ivrea diventa una metafora esistenziale. Una relazione professionale che, però, sale di livello disponendosi su due direttrici essenziali per capire la sua fisionomia artistica: una più estetica e formale, che indaga il tema del valore del progetto d’architettura industriale e residenziale; l’altra più interiore e sostanziale, che traduce in immagini il sistema sociale di relazioni dentro e fuori dalla fabbrica voluta da Adriano. “Per me lavorare con la Olivetti fu un’esperienza eccezionale. Adriano non c’era più, ma c’erano tutti i suoi uomini nei vari settori. Persone uniche, che contribuirono ai miei valori perché mi influenzarono tantissimo”. Una delle cose più belle, infatti, per Berengo era la sera, dopo gli scatti. “Le giornate erano incredibili, ma la sera superava tutto. Tornavamo in albergo distrutti, ma ci rianimavamo perché ci ritrovavamo a cenare e chiacchierare tutti assieme. Incontravo personaggi incredibili per un giovane speranzoso come me: scrittori, intellettuali, pittori, ingegneri, filosofi. Stavano con noi e ci consideravano come loro. Oltre al piacere del lavoro e al guadagno per vivere, che era molto generoso, la parte più importante di lavorare con la Olivetti per me è stata quella umana e culturale”.
Anche per questo, Berengo fa fatica a ritrovarsi nel mondo di oggi, dove all’evoluzione della società è corrisposta una metamorfosi della fotografia. “Non mi sarei immaginato che la fotografia sarebbe divenuta questo. Non saprei come definirlo. Con il digitale alcune cose si sono trasformate in meglio, ma la maggior parte in peggio. Sia chiaro: io non sono contro il digitale. Indubbiamente, è stato una grande rivoluzione. Tecnicamente, il modello che ho provato ha addirittura una resa da banco ottico, però trovo che il digitale sia comunque troppo metallico, troppo freddo, tutte cose che non cerco nella fotografia. Credo che la pellicola sia ancora più plastica e, soprattutto, genera un negativo. Avere un negativo, qualcosa di concreto in mano, per me è un gran vantaggio. Con il digitale non sappiamo se tra 50 anni esisteranno ancora gli strumenti per leggere le nostre fotografie o se saranno completamente cambiati i supporti e tutto sarà perduto. Per principio posso dire di non essere contro il digitale, però non credo che questo mezzo abbia grossi vantaggi. Inoltre, la postproduzione, checché ne dicano, costa carissima. Così, per me il digitale è stato una rivoluzione e, come in tutte le rivoluzioni, in essa c’è il bene e il male, per questo non deve diventare un’ideologia che farà svanire tutto. Intanto è svanito il reportage. Anche perché quando tutti fanno le foto col telefonino e i giornali non guardano la qualità e vogliono che le foto siano regalate, come si fa a fare un reportage? È così che giovani si dedicano alla foto che ritengono essere di arte, anche se poi arte non è”.
Il futuro della fotografia, per Berengo, è la specializzazione. Moda, pubblicità, anche architettura. Non più, però, quella particolare lirica che è il reportage. Sul futuro della società, invece, Berengo è meno ottimista. “Non so perché siamo peggiorati. So però che la nostra generazione con la guerra era abituata ai sacrifici, a tutto quello che mancava. Nessuno si lamentava, non ci lamentavamo mai, noi. I giovani di oggi, invece, si lamentano di tutto, vogliono sempre di più e non sanno che fanno una vita che nessuno ha mai fatto prima di loro. Per questo, non ho la più pallida idea di cosa succederà. Certo che se andiamo avanti così con i giovani che passano le serate al bar a dilapidare passioni e talenti, a sprecare tempo prezioso, a non capire chi sono e impegnarsi, tanto ottimismo non c’è”.
Uno dei più importanti fotografi italiani, Berengo Gardin conserva nel suo archivio quasi due milioni di fotografie in bianco e nero che spaziano dall’indagine sociale alla foto industriale, dall’architettura al paesaggio. La sua ultima mostra, “Gianni Berengo Gardin e la Olivetti”, è aperta fino al 15 novembre presso Camera, Torino.
Immagine di apertura: Gianni Berengo Gardin. Foto Donatella Pollini