Questo articolo è apparso originariamente su Domus 1057, Maggio 2021.
“Per conto mio, le cose non saranno esattamente come prima, anche se la tendenza umana è di tornare a fare le cose di prima. Alcune lezioni importanti le abbiamo imparate, per esempio l’uso più o meno intelligente delle tecnologie informatiche che ci permettono di lavorare da casa, cosa che 20 anni fa non sarebbe stata possibile. Dopo l’emergenza, questo resterà importante per la flessibilità e la produttività; l’Italia, che in questi aspetti era indietro, ne ha beneficiato. Allo stesso tempo, occorre capire cosa è successo davvero, andare alla radice del problema: perché ci sono virus così potenti? Come sapremo rispondere in futuro a un possibile attacco di un altro virus o di una sua mutazione? Perché è successo? Da questo punto di vista, sono più scettico e preoccupato, perché non so se saremo ancora pronti a guardare davvero come stanno le cose. Se, per esempio, dovessimo vaccinarci ogni anno, sarebbe un disastro”. Parla con calma Federico Faggin, mettendo le pause al posto giusto, soprattutto quando parla del mondo digitale, la nostra seconda natura che sta diventando la prima. La riflessione forse deriva dal fatto che sa quello che dice, dal momento che due dei pilastri della rivoluzione digitale, cioè il microprocessore e lo schermo touch, li ha inventati lui.
“Ho passato la mia vita lavorando dieci ore al giorno, spesso anche il sabato e la domenica, cercando soluzioni a problemi tecnici e scientifici che mi appassionavano. Mio padre raccontava che, a cinque anni, corsi da lui sconsolato: “Papà, voglio inventare delle cose, ma sono già state inventate tutte!”. Ho cominciato prestissimo a smontare gli oggetti per capire com’erano fatti e a costruirne di nuovi con materiali di risulta. Poi, un giorno, vidi un modellino d’aereo che volava e rimasi folgorato”. Figlio di un professore di storia e filosofia al liceo classico di Vicenza, che aveva scritto 40 libri dottissimi e tradotto le Enneadi di Plotino, lo scandalizzò quando gli comunicò il desiderio di fare l’istituto tecnico industriale per imparare a costruire aerei. Il caso, però, volle che avessero chiuso la specializzazione in aeronautica e così Faggin fu costretto a scegliere l’indirizzo in radiotecnica. “Appena diplomato, mi assunsero alla Olivetti, allora l’azienda più all’avanguardia in Italia, e lì mi resi conto di come girava il mondo. Se hai idee nuove e non sei un ingegnere, è impossibile farti prendere sul serio. Così, tornai da mio padre e dissi che volevo licenziarmi per iscrivermi all’università, a Fisica. ‘Sei matto? Guadagni più di me’. Era vero. Temeva che non ce l’avrei fatta, perché alcuni dei suoi migliori studenti ci avevano provato e avevano desistito. Mi laureai con 110 e lode”.
Il trasferimento in America fu del tutto causale. Faggin fu infatti assunto dalla SGS, un’azienda di Agrate Brianza che aveva la licenza per i circuiti integrati della Fairchild, la società di semiconduttori più avanzati nel mondo, con sede a Palo Alto. Così, nel dicembre del 1967, gli proposero un programma di scambio di ingegneri della durata di sei mesi. “Nel febbraio del 1968, io e mia moglie Elvia sbarcammo, in piena fioritura, nella Valle di Santa Clara. La Silicon Valley era, allora, un’immensa distesa di orti e frutteti”. Fu l’inizio di una straordinaria avventura, che il vertice di Intel comprese subito guardando in faccia questo ragazzo, apparentemente timido, della provincia veneta. Era il 1970, i calcolatori erano giganteschi e funzionavano grazie a transistor ingombranti, lenti e costosi. Faggin creò un microprocessore ovvero “un computer con un briciolo d’intelligenza, piccolo, a buon mercato, che consumava poco ed era affidabile”. È stata una rivoluzione, che ha reso possibile non solo questa intervista, ma anche il cellulare con cui stiamo parlando di Milano, che resta “la città più all’avanguardia, più internazionale, di cui ce ne sono poche in Italia. Soprattutto, negli ultimi dieci anni, ho visto la sua rinascita, sono stato sorpreso in maniera positiva. Per me, è un modello sociale e architettonico per le altre città italiane, che devono ispirarsi a quanto è stato fatto di buono e lasciare andare ciò che è meno buono. Procedendo verso il futuro”.
A questo proposito, Faggin ha le idee chiare: “Le tecnologie digitali continueranno a marciare con grande velocità e accelerazione, come abbiamo già visto, soprattutto spostandosi nell’area dell’intelligenza artificiale e della robotica con tutte le applicazioni che ne conseguono. Alcune promesse, però, non sono avverabili, almeno non nel futuro prossimo. Prenda l’auto che si guida da sola, non potremo vederla prima di almeno 20 anni. Però sarà un cambiamento molto importante perché l’ecosistema dei trasporti sarà stravolto dalle auto elettriche che si guidano da sole anche in città, permettendo di addormentarsi in macchina e di suonare il campanello quando si è arrivati in ufficio. Il potenziale per fare tutto questo c’è, ma non quello per sostituire l’uomo. In questo vedo una disconnessione tra molti player, in particolare i media, che dimostrano di non avere capito cosa è davvero l’uomo. Non dobbiamo avere paura dell’intelligenza artificiale, perché avremo macchine più intelligenti, ma solo nel senso che accelereranno i processi automatici dell’uomo: non la sua comprensione, non la sua intuizione, non la sua sensibilità che vengono dalla coscienza”. Faggin sorride e si ferma. Non prima di avere espresso parole di speranza per il futuro: “Non so cosa succederà, ma spero che l’uomo impari a cooperare invece di competere, la cooperazione infatti è fondamentale per affrontare i problemi del clima, della corruzione, della povertà a livello planetario. Siamo uomini, non macchine e quello che ci rende diversi sono la coscienza e i valori. Speriamo di ricordarlo sempre”.
Immagine di apertura: Federico Faggin (primo a sinistra) con due periti elettronici alla Olivetti.