Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1053, gennaio 2020.
“Qui in giardino le piante vanno, vengono, discutono. Io le lascio fare. Sono benvenute. Anche quando fanno cose che mi fanno sorridere, mentre mia moglie Valeria ride meno. Forse perché è lei a curarle, potarle, assecondarle. Anni fa, un amico russo aveva dimostrato che le piante della sua cucina piangevano quando cucinava i gamberi vivi. Era uno scienziato e dimostrò che le piante sentivano quando stavano per morire. Fu radiato, ma oggi non lo sarebbe. Segno che i tempi stanno diventando maturi per una consapevolezza diversa di cosa è davvero la realtà. Una faccenda complicata, una trama che va oltre quello che vediamo e pensiamo”.
Tobia Scarpa è un architetto e un designer fuori dal comune, nel senso che più di un creatore di soluzioni estetiche su scala industriale somiglia a un poeta. A un uomo che scende nel profondo del sé per scoprire il noi.
“Amo i poeti forse perché nasco in una famiglia particolare. Mio nonno era un professore di liceo. Mia mamma apparteneva a una famiglia di commercianti, fra cui c’era una pittrice di grande raffinatezza. Ho preso da lei, ma anche da mio padre che era in realtà un pittore. L’ho capito quando ho dato un senso alle notti che passava insonne a cancellare i disegni fatti di giorno per illuminarne minuziosamente i particolari.
Era la sua essenza segreta, disegni meravigliosi sopra ogni logica che cercavano la bellezza. Era il poeta Carlo che prendeva il posto dell’architetto Scarpa”. Ottantacinque anni che sembrano 60, sopravvissuto a drammi familiari difficili da immaginare, Tobia Scarpa si è disegnato una carriera al tempo stesso luminosa e appartata. Autore con la prima moglie, Afra, di vertici del made in Italy – la sedia Miss, il letto Vanessa, le poltrone Cornaredo, Erasmo, e Soriana, la sedia Libertà, esposta al Louvre – ha partecipato al restauro dei capolavori dell’architettura italiana, come Palazzo della Ragione a Verona, e ha segnato un tratto dell’epopea dei Benetton, ideando la prima fabbrica e i negozi iconici di Friburgo, Parigi e New York.
Soprattutto, Tobia ha cercato di onorare il talento ricevuto dal padre Carlo, non stancandosi d’indagare il legame segreto delle cose. Sempre sottovoce, ma con gli occhi accesi da una curiosità di bambino. “Non ho fatto scuole, ma studio tanto o, meglio, continuo a cercare d’imparare. Da mio padre non ho ereditato il talento, ma la sua sensibilità, e il debito. Il padre del resto è una roba complicata. Il mio non aveva mai fatto le cose materialmente, ma possedeva il segreto del fare. Non tutti i figli conquistano qualcosa dei padri, la loro eredità è misteriosa, un debito difficile da estinguere che il destino s’incarica di gestire. Mio padre mi ha insegnato tutto quello che so, anche se non è mai salito in cattedra con me. Mi portava insieme a lui. Non dai committenti, ma dai collaboratori. Ricordo un gruppo di vetrai intelligenti, dove ha fatto le cose più belle che Venezia abbia mai visto.
Carlo conosceva il mestiere del vetraio, lo aveva imparato da intellettuale, cosa che gli permetteva di dialogare con i maestri vetrai”. Per Tobia, non solo tutto è unico, ma la realtà è molto più grande e vasta di quello che appare. Per questo è importante il mito, perché fornisce le uniche categorie per orientarsi e fare qualcosa di buono.
“Il tessuto della vita è una trama complicata. Gli antichi avevano capito bene la faccenda, con chi tagliava la vita, chi la tesseva... Poi sono arrivati i filosofi e hanno sciupato tutto. I presocratici si salvano, sono quelli giusti. Anche il pensiero è unico. Tutti tendono a separare le cose per rendere più facile la vita, ma non funziona così. Siamo fortunati perché la vita è stata separata a pezzetti, non dobbiamo fare scelte, ma tutto ciò che facciamo dovrebbe avere un inizio e una fine lontani tra loro, come le piante. Che parlano, si muovono, litigano fra di loro. Proprio come quel noce che è nato qua, adesso glielo faccio vedere”. Nella mitologia di Scarpa, la storia è centrale, ma forse in un modo diverso da quello che si pensa oggi. “Sono nato a Venezia, ma non sono di Venezia, quanto piuttosto veneto. Venezia ha una storia per conto suo, una serie di avvenimenti diversi, ma resta sostanzialmente una forma romana sulla quale i veneziani hanno costruito il loro destino. I veneti, invece, sono popolazioni che venivano dall’interno, vivevano su un territorio pieno d’acqua, i primi uomini avevano bisogno di starci, altrimenti era troppo pericoloso, di certo meno che prendere i leoni, che allora c’erano, in Veneto. Oggi, però, è tutto cambiato. I veneziani non ci sono più e quindi Venezia è una scatola vuota. Il veneziano ama la sua città, la tiene sana, solida, in tutta la sua storia, mentre chi ci vive adesso lascia che ci siano solo alberghi, gente da fuori, l’università con studenti stranieri. Siamo al collasso, anche per motivi tecnici, il sale che consuma i mattoni, ma prima di tutto ha consumato lo spirito”. Davanti ai granchi del pranzo, che ricordano quelli dell’esperimento russo, Tobia raggiunge una sintesi di sé.
“Guardando indietro io non vedo un designer, io non ho fatto nulla. La prima cosa che ho disegnato è quella sedia lì, ma non sapevo come venderla e avevo in odio tutti gli industriali perché erano troppo interessati al guadagno, non avevano l’equilibrio tra quel ricevere dal vendere e quella cosa che tu produci. Non ho mai lavorato per me stesso, se avessi voluto diventare importante avrei fatto altre cose; le cose sono venute per conto loro. Io non c’entro. Questo è il bello degli oggetti. Quando non si paludano, quando emergono per la loro forza interna. Altrimenti marciscono. Ho fatto un percorso da solo, ho cercato di imparare le cose, ho rubato tutto quello che ho potuto, sono curioso di tutto, soprattutto delle parti materiali. Devo ridurle per portarle a conoscenza. Entrare nel significato profondo delle cose, capire come si muovono fra di loro, è una cosa grande; è difficile farlo con certezza”.
Immagine di apertura: Tobia Scarpa e Walter Mariotti nel corso dell’intervista. Foto Valentina Petrucci