L’anno cinematografico non inizia a gennaio, insieme a quello civile, ma a maggio, con il festival di Cannes. È lì che si vedono in anteprima una buona fetta dei film più attesi del circuito indipendente e autoriale che poi caratterizzeranno le distribuzioni dei 12 mesi seguenti, le discussioni e il ciclo di ascese e cadute di nuove e vecchie star (l’altro momento cruciale, la Pasqua dell’anno cinematografico, è a inizio settembre con la Mostra del cinema di Venezia). E se la qualità e la riuscita di Cannes sono indicatori di come sarà la stagione (no, non lo sono, ma sarebbe bello se lo fossero), il 2023 sarà un’ottima annata.
Design e architettura in 5 film che abbiamo visto al Festival di Cannes
Dalla villetta dell’ufficiale nazista di The Zone of Interest all’elaborata esplorazione di Amsterdam firmata Steve McQueen, una cinquina di film imperdibili direttamente dalla Croisette.
Martin Amis, La zona d’interesse. Copertina dell’edizione italiana di Einaudi
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- Gabriele Niola
- 31 maggio 2023
Marginalizzati i film più spenti, banali e ripetitivi, e invece messi al centro quelli più dinamici ed esplosivi, pieni di novità, in questa edizione di Cannes anche i grandi maestri non hanno portato come spesso capita la ripetizione delle loro caratteristiche più note ma qualcosa di un po’ diverso. In questo contesto abbiamo visto anche molti film che avevano al centro il design e l’architettura, mai in modi banali e anzi cercando di sfruttarne le potenzialità visive o narrative.
I film sull’Olocausto hanno creato un’estetica e hanno diffuso in tutto il mondo, attraverso generazioni differenti, gli elementi architettonici più forti dei campi di concentramento nazisti. Sono le torrette delle guardie con tetto spiovente, le mura con filo spinato, i baracconi alloggio per i prigionieri e poi le lugubri ciminiere dei forni, fino agli ingressi per treni, con i binari che entrano fino dentro. È l’assunto da cui parte The Zone Of Interest che parla, appositamente, di questioni banali e ordinarie della famiglia dell’ufficiale incaricato della gestione di Auschwitz, loro risiedono in una villetta dall’architettura completamente diversa subito fuori dal campo. E per tutto il tempo in cui seguiamo le loro piccole beghe quotidiane vediamo sullo sfondo delle finestre quegli elementi architettonici, la punta di un tetto o un po’ di fumo delle ciminiere.
Quando i bambini giocano nel giardino il muro confinante ha il filo spinato, sentiamo spari in lontananza e urla. Anche se a nessuno interessa e tutti sono ormai abituati. Ogni tanto arriva un treno e lo capiamo dal fumo, di notte la luce delle torrette passa sulla casa. Non è l’Olocausto in sé, ma l’Olocausto evocato dalla sua architettura e dai suoi suoni, ormai da noi metabolizzati così tanto che basta un accenno sullo sfondo ad evocarne il terrore. I personaggi in primo piano, la famiglia di nazisti della villa accanto, non se ne curano, per loro (e a un certo punto anche per noi) è solo rumore di fondo e paesaggio architettonico introiettato.
Non solo un film girato in Giappone con un protagonista giapponese, ma un film ambientato a Tokyo con un personaggio che di lavoro pulisce i bagni pubblici della città. Wim Wenders è esterrefatto dal culto del bagno pubblico giapponese, riprende questo inserviente mentre compie un lavoro non amabile con gioia e con una serenità che è subito contagiosa. Ci sono diversi tipi di bagni, diversi design, diverse tecnologie (uno è trasparente ma quando si chiude a chiave la porta a vetri e le pareti a vetri cambiano polarità e diventano opachi, nascondendo l’interno), tutti splendidi.
Perfect Days è un seguire questo personaggio ordinato e preciso, in un’intera città che è ordinata e precisa, metodica e geometrica, nella quale la ripetizione, la dedizione e la purificazione attraverso la pratica sembrano sempre ad un passo. Storia e design urbano che vanno di pari passo.
All’opposto logico del design e della cura di progettazione ci sono i palazzoni terribili e brutalisti (senza sapere cosa sia il brutalismo) di Zhili a 150 Km da Pechino. Siamo nel distretto tessile, Happiness Road per la precisione. E mai nome è stato più fuorviante. Questi palazzoni da edilizia popolare creata con cattiveria ospitano laboratori in cui su macchine da cucito casalinghe vengono realizzati in serie abiti di quart’ordine per bambini, dentro stanze spoglie senza finestre. È un lavoro a cottimo da fare in fretta e in polemica, sempre.
Soprattutto è un lavoro per ragazzi. Questo documentario segue tante storie di questi impiegati, le loro richieste di paghe migliori, la loro vita negli alloggi orribili che gli vengono forniti tra porte in acciaio e spazzatura in terrazzo. Eppure loro sono così vitali. Il contrasto tra l’aggressività di questa architettura disumana e invece gli amori, le spinte, i desideri ma anche tantissimo gli scherzi e le risate dei ragazzi è potentissima, come se niente, nemmeno il disinteresse di ogni forma di potere, potesse sopprimerlo.
Come ci si può amare ad Helsinki, nei quartieri popolari spenti di vita? Un uomo e una donna si incontrano e sembrano condividere la medesima fissità espressiva, la stessa rassegnazione alla propria condizione di estromessi dalla società. Hanno lavori o lavoretti occasionali, non cercano nemmeno un domani migliore. Eppure questo film è divertentissimo. Loro sembrano depressi ma le risate in sala si rincorrono e sono scaturite dall’umorismo unico del suo autore (lo stesso di L’uomo senza passato).
Potrebbe essere una storia amara ma i loro vestiti dai colori sgargianti parlano di ben altri desideri, le loro case spoglie hanno pareti colorate. Capiamo ben presto che le loro giornate sono tutte un tentativo di incontrarsi, forse frequentarsi. Quello di Kaurismaki è davvero il film d’amore più imprevisto dell’anno, e questo sentimento ad un certo punto proprio tangibile e capace di cambiare le vite, l’ha trovato negli ambienti che meno pensiamo possano ospitarlo, tra tavoli in formica e radio dal design andato.
Lungo quattro ore Steve McQueen ha tempo di esplorare in lungo e in largo Amsterdam. Strade, case, palazzi, interni, esterni, cortili, piazze, zone industriali e centrali, museali e ricreative, pubblico e privato, negozi e quartieri a luci rosse. Tutti gli spazi della città in cui questo ex videoartista ora regista (è lo stesso di 12 anni schiavo e Shame) ha scelto da anni di vivere sono ripresi mentre vengono vissuti, abitati o mentre sono attraversati. Sono i mesi della pandemia, tra lockdown più o meno severi, ma la voce fuori campo che accompagna come un tappeto le immagini racconta invece storie dall’occupazione nazista, storie avvenute proprio in quelle case o quelle strade inquadrate.
Storie di eccidi, violenze, soprusi o resistenza. Una città non è solo la somma dei suoi luoghi ma il carico della storia dei suoi luoghi, anche se decenni dopo sembrano non portarne più tracce visibili. Il contrasto tre i resoconti di decisioni terribili, suicidi indispensabili o ebrei nascosti e le immagini di quei posti in cui ora giocano bambini o lavorano famiglie è un ampliamento della prospettiva storica dell’architettura mai visto al cinema.