Prima di Pedro Almodovar non esisteva nessuno, in Spagna e forse nel mondo, capace di fare da ponte tra le culture underground della movida, esplose e venute a galla dopo la fine del franchismo, e un pubblico più ampio e mainstream. Fin da Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, il suo primo lungometraggio, Almodovar invece usa i generi commerciali (soprattutto la commedia ma anche il thriller e il giallo) per raccontare le altre persone, gli altri generi, le altre sessualità fino a quel momento annullate dalla dittatura e in quegli anni relegate alle sottoculture punk.
Da lì viene, anzi prima ancora viene dal mondo cattolico, (mal)educato dai preti, ignorantissimo per sua ammissione. Nessuno gli insegna a fare cinema, i suoi primi film sono fatti male, pieni di storture e molto grezzi, ma hanno una vitalità che non si impara. Il suo terzo lungometraggio, L’indiscreto fascino del peccato, racconta di una cantante di night che trova rifugio in un convento di suore una più paradossale, demenziale e trasgressiva dell’altra; il quarto, Che ho fatto io per meritare questo?, è una satira eccezionale su una casalinga repressa liberata da nuove amicizie più libere e una bambina con poteri telecinetici. In questi film ci sono finte pubblicità grottesche, sesso, volgarità e fanno molto ridere.
Dal 1988 con Donne sull’orlo di una crisi di nervi, suo settimo film, tutti si accorgono che ha imparato come si fa il regista e ha sviluppato quell’estetica di colori, movimenti di macchina morbidi, riferimenti pittorici, teatrali e letterari che ancora oggi sono la sua firma. È la commedia più completa, con un richiamo a La voce di Jean Cocteau e una storia tra dramma e risate che urla femminilità. Donne libere dallo sguardo maschile che manifestano femminilità, ridono e piangono per “cose di donne”, come dice lui. Un manifesto.
Per la prima volta con questi film di grande successo e popolarità il cinema si riempie di fisici non ordinari e facce non ordinarie, donne di campagna, nonne, madri, ragazze e fidanzatine libertine. Tutte categorie mai raccontate da vicino.
Gli anni successivi, i ‘90, sono quelli del trionfo commerciale in cui si susseguono un film audacissimo come Lègami (storia di uno stalker che lega e rapisce la donna da cui è ossessionato perché lei si innamori di lui e va esattamente così, anche perché lui è Antonio Banderas) e poi i melodrammi bellissimi come Tacchi a spillo, Il fiore del mio segreto e Carne Tremula, fino a Tutto su mia madre, summa di questo periodo che contiene tutto quello che Almodovar è diventato e lo impone come uno dei più grandi registi di viventi. Parla con lei, film successivo, sarà solo la conferma. Non ha più bisogno di far ridere ma conquista il mondo facendo piangere.
Per la prima volta con questi film di grande successo e popolarità il cinema si riempie di omosessuali che non stanno al posto loro ma fanno sesso (mai capitato in un film mainstream fino a quel punto), di transessuali che sono anche attori e spiegano la transessualità, le operazioni e lo sforzo di cambiare corpo. Si riempiono di fisici non ordinari e facce non ordinarie (Rossy De Palma poteva diventare attrice solo in un film di Almodovar), donne di campagna, nonne, madri, ragazze e fidanzatine libertine. Tutte categorie mai raccontate da vicino. L’impresa registica di Almodovar è di aver sviluppato uno stile, una sensibilità e un tocco, capaci di fare entrare nei salotti buoni, nelle case borghesi e nelle conversazioni delle signore meno aperte, le ossessioni sessuali etero meno convenzionali (in fondo in Parla con lei c’è uno stupro di un cadavere!), il desiderio e il contatto fisico omosessuale esplicito e il mondo transessuale in veste romantica.
Negli anni Duemila è cambiato tutto, sono arrivati gli acciacchi fisici e i film si sono fatti ripetitivi e fiacchi. Solo recentemente Dolor Y Gloria ne ha rispolverato la voglia di fare film, trovando nuove idee e tabù da trasformare in storie per tutti: la vecchiaia, la morte e la fine di ogni cosa. Almodovar, uno dei più vitali tra i registi, uno dei più eccitati e vogliosi di godere, si trova da anziano a guardare la decadenza e la fine, e ne fa un bilancio di incredibile sensibilità, ottimismo, colori e desiderio. Trova una chiave almodovariana, colorata e allegra all’avvicinarsi della morte. Il suo ultimo film, presentato a Venezia, La stanza accanto, è una storia di eutanasia e accettazione della fine del mondo per i cambiamenti climatici, niente di più derelitto e mesto, che tuttavia è all’insegna della vitalità e delle passioni. Anche il tabù del decesso di una persona cara viene da lui trasformato, nella scena più bella di tutto il film, in un quadro tra il Bauhaus e Edward Hopper. Non la sconfitta della vita ma un vero trionfo nel trapasso. Incredibile, solo lui.