Questo articolo sarà pubblicato su Domus 1084, in edicola a novembre 2023.
“Pur vivendo in mezzo alla gente del bel mondo quasi come uno di loro e lavorando per i committenti in modo serio e professionale, in realtà io vivo una vita di sogno, segreta”. Forse tutti gli architetti di tutte le epoche hanno avuto una vita segreta, un desiderio proibito, un sogno impossibile. Nessuno, però, fu mai capace di realizzarlo, soprattutto nel Novecento. Anche per questo, la Scarzuola è un passaggio obbligato del Viaggio in Italia di Domus, perché è una porta magica per comprendere il Paese e il ruolo che vi ha giocato l’architettura.
Il fortunato che ci riuscì, “dopo aver passato il primo tempo della vita a soddisfare il corpo riuscì nel secondo a soddisfare l’anima”. Si chiamava Tomaso Buzzi, era nato a Sondrio nel 1900 e resta una delle figure più rappresentative e misteriose della cultura novecentesca. L’unico che realizzò il sogno segreto, costruendosi non un edificio, ma una città, dove, però, non volle vivere mai.
Professore di Disegno al Politecnico di Milano, direttore artistico di Venini, interlocutore dei più importanti progettisti della prima metà del secolo – fra cui Gio Ponti che, nel 1934, pubblicò tre suoi progetti – Buzzi fu il campione del Déco, diventando prima il beniamino dell’alta borghesia milanese e, dopo il trasferimento a Roma, quello dell’aristocrazia nera, che contribuì a costruire il suo mito. Uomo ricercatissimo e instancabile, non fu solo fra i codificatori del design italiano, ma anche scenografo di giardini, disegnatore assoluto, collezionista d’arte classica, restauratore legatissimo alla pratica di bottega, soprattutto degli artigiani della sua Valtellina.
Pur vivendo in mezzo alla gente del bel mondo quasi come uno di loro e lavorando per i committenti in modo serio e professionale, in realtà io vivo una vita di sogno, segreta.
Tomaso Buzzi
Nonostante questo, o forse proprio per questo, Buzzi si disegnò un destino diverso da quello di tutti i suoi colleghi, un percorso ondivago ed eclettico, non smettendo d’interrogare la cultura classica ed esoterica che sprizzano da ogni dettaglio delle sue opere, sconvolgendo l’ignaro viandante che arrivi fino a qui, alla Scarzuola. Buzzi s’imbatté per caso in questo luogo, a pochi chilometri da Montegabbione, vicino alla chiesa costruita nel 1282 da Nerio di Bulgaruccio dei Conti di Montegiove, accanto alla fonte dove la leggenda vuole che San Francesco si fosse fermato una notte costruendosi un giaciglio e una capanna con un’erba palustre, la scarza.
La Scarzuola, città ideale di Tomaso Buzzi
La rubrica Viaggio in Italia è realizzata con il supporto di Jaguar Land Rover
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In 15 anni di lavori febbrili, dal 1956 al 1971, Buzzi trasformò queste colline incantate nel rovescio oscuro della città ideale del Rinascimento. Un monumento ossessivo alla propria idea di architettura e al proprio narcisismo, forse. Se è un monumento, però, La Scarzuola è un monumento rovesciato, un progetto visionario e surrealista fatto di scale, palcoscenici, anfiteatri, torri, vuoti, pieni, sculture non finite e finestre che si aprono sul nulla. Attraversandolo, appare come un insieme di citazioni e anticitazioni, molti simboli, metafore di cui si perde il conto e suggestioni che s’inseguono mescolando mitologia pagana e teologia cristiana, astronomia azteca e spirito dei Vedanta.
Una summa iniziatica, insomma, alla ricerca della verità attraverso i sette teatri dell’essere – Barca delle anime, Balena di pietra, Torre della disperazione, Scala della vita, Tempio di Eros, Pozzo della meditazione e Teatro delle api, gli insetti favoriti di Buzzi forse perché fanno bzzzz, bzzzz, bzzzz incessantemente, ricamando un tesoro dai fiori, proprio come lui. Anche questa, però, è un’interpretazione, che lascia il tempo che trova perché nessuno può dire con precisione cosa sia la Scarzuola. Un labirinto senza centro, un agglomerato di ferro e tufo che Buzzi montava e smontava al telefono, da Roma o uno dei suoi infiniti viaggi, come una gigantesca tela facendo impazzire le maestranze.
“La Scarzuola è fatta per le formiche”, ripeteva enigmatico, “le lucertole al sole o per permettere alle lumache di far dei percorsi argentei sulle pietre, ai bachi da seta per star nei loro bozzoli e produrre i loro nobili fili, alle api per accogliere in alveari architettonici il loro miele, alle farfalle, ai grilli, alle cicale, anzi alle ciandelline, le tante del sole adoratrici”. Alla fine della visita, questo progetto mostruoso e avvenente resta il mistero di un uomo inafferrabile, che forse solo un altro uomo potrebbe svelare: Marco Solari, il nipote di Buzzi che, da giovanissimo laureato, lasciò un destino d’eccellenza nella finanza e molti privilegi mondani per trasferirsi qui, in una cella del convento, alle spalle della Chiesa sconsacrata.
A custodire il sogno dello zio conducendo una vita dal rigore monastico, ma facendo della Scarzuola quello che Buzzi non riuscì o forse non volle: la sua isola che non c’era e che, invece, per lui c’è stata davvero. “La Scarzuola è la fantasia di Buzzi che si manifesta così come infinita”, sorride Solari, “ma la possibilità di materializzarsi è finita perché viviamo nello spazio-tempo. Quindi, si cerca di fare, ma senza eccedere, perché se no, poi, va a finire che l’opera non ha più nessun senso”. Un chiarimento che spiega qualcosa, ma non tutto.
La Scarzuola è fatta per le formiche, le lucertole al sole o per permettere alle lumache di far dei percorsi argentei sulle pietre, ai bachi da seta per star nei loro bozzoli e produrre i loro nobili fili, alle api per accogliere in alveari architettonici il loro miele, alle farfalle, ai grilli, alle cicale, anzi alle ciandelline, le tante del sole adoratrici.
Tomaso Buzzi
Buzzi non avrebbe costruito la Scarzuola per nessun altro scopo che per un divertissement coltissimo, dando sfogo alle pulsioni creative che i suoi committenti, pur adorandolo, non gli avrebbero permesso. O che lui non osava proporre sentendosi non in cravatta, come diceva, ma nudo. Comunque fosse, in questo luogo Buzzi fu capace di condensare Palladio e Borromini, Pirro Ligorio e Serlio, Escher e Dalì – che venne anche a vederla – in una vera “antologia in pietra” che si avvicina senz’altro a una macchina teatrale dove però non c’è il teatro. O come un Golgota laico senza redenzione.
Solari stempera ancora. “Ma no, la Scarzuola è fondamentalmente un gioco, non è da prendersi sul serio. Ecco il perché della chiave teatrale. Qui tutto è semiserio, è un volo di fantasia che l’architetto ha pietrificato. Uno che arriva qui deve essere flessibile, circolare come la città ideale di Tomaso Buzzi, che non ha schemi e che, come la spiritualità, ognuno la può esprimere come vuole”. Sarà. Sarà come dice questo delizioso signore dal sorriso disarmante, che dopo 30 anni alla Scarzuola appare a metà tra un borghese milanese di campagna e un Waldgeist in contatto con le correnti del misticismo umbro.
Però, tornando verso la nostra Land Rover, straordinaria compagna del nostro viaggio, la Scarzuola ribalta la nostra impressione iniziale. Non è per nulla l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna. E nemmeno la Sforzinda del Filarete. In queste quattro ore di sguardi e parole non abbiamo visitato una città ideale, né la sua parodia alchemica. Più probabilmente, abbiamo fatto una seduta di psicanalisi, un confronto sublime e terribile con quegli archetipi che restano i diversi aspetti della nostra psiche e segnano le prove del nostro passaggio nel mondo terreno. Se siamo disponibili a incontrarli, e oltrepassarli, visitare la Scarzuola lascia con una maggiore consapevolezza, dei nostri demoni e del proprio genio, oltre che di quello dell’architetto. Anche solo per questo, oltre che per molto altro, dovremmo essere grati per sempre a Tomaso Buzzi (e a Marco Solari).
La rubrica Viaggio in Italia è realizzata con il supporto di Jaguar Land Rover.