È il 31 ottobre 2008 quando un anonimo programmatore ed esperto di crittografia che si fa chiamare Satoshi Nakamoto invia un messaggio a una mailing list specializzata: “Sto lavorando a un nuovo sistema di denaro elettronico completamente peer-to-peer, che non richiede nessuna terza parte per funzionare”. In allegato alla mail c’è un file di nove pagine, che diventerà noto come il Bitcoin White Paper.
In quel documento, Satoshi Nakamoto presenta al mondo una nuova forma di denaro elettronico: i bitcoin, per l’appunto. L’ideazione di una moneta digitale non è una novità assoluta, ma per superare i limiti delle sperimentazioni compiute nei decenni precedenti – da esperti di crittografia come David Chaum, Adam Back o Dai Wei – Satoshi non si limita a utilizzare la crittografia per proteggere il proprio portafoglio elettronico da intrusioni hacker, ma anche per verificare la correttezza di ogni transazione ed evitare, per fare solo un esempio, che una persona possa spendere due volte lo stesso denaro (un problema noto come “doppia spesa”).
Il problema viene risolto da Satoshi Nakamoto attraverso un complesso procedimento: una volta eseguita la transazione, questa viene segnalata a tutti i computer che – scaricando un apposito software – sono entrati a far parte del network dei bitcoin. Tutti i computer collegati possono verificare che l’utente possegga i soldi che sta cercando di spendere, consultando un apposito registro pubblico digitale posseduto da tutti i computer collegati. Questo registro contiene l’elenco delle transazioni in bitcoin e sfrutta la crittografia per impedire di essere modificato e manomesso. Quando la spesa viene confermata, viene inserita in un gruppo di transazioni recenti, chiamato “blocco”.
Per aggiungere le transazioni ai blocchi, e poi i blocchi al registro, è però necessario che uno dei computer collegati al network dei bitcoin risolva per primo un complicatissimo puzzle matematico. Maggiore è la potenza di calcolo del computer, maggiore è la probabilità che trovi la soluzione. Il primo che riesce a risolvere questa colossale corsa informatica non solo convalida un insieme di transazioni, ma riceve in cambio una determinata quantità di bitcoin (inizialmente erano 50, ma il premio è stato dimezzato ogni 210mila blocchi convalidati e oggi è di 6,25); fornendo così un incentivo economico affinché questo sistema volontario possa funzionare.
È nata la blockchain: il sistema inventato da Satoshi Nakamoto, contestualmente ai bitcoin, proprio con lo scopo di rendere questa moneta elettronica utilizzabile. A meno di riuscire a conquistare il 51% del potere di calcolo dell’intera blockchain (impresa quasi impossibile in un sistema distribuito e decentralizzato), il singolo non può quindi apportare modifiche unilaterali al registro, perché verrebbe meno il consenso necessario tra i nodi. È un elemento fondamentale, perché la decentralizzazione della blockchain è ciò che la rende sicura e distribuita, facendo affidamento sulla “democrazia del potere di calcolo” assicurata dalle migliaia di partecipanti alla blockchain dei bitcoin. Attenzione, però: se nei primi anni era possibile usare un normale computer per partecipare a questa corsa computazionale, oggi i miner – coloro che si occupano di coniare i bitcoin – utilizzano strumenti professionali all’interno di vere e proprie fabbriche di bitcoin.
La blockchain inventata da Satoshi Nakamoto contestualmente ai bitcoin è sicuramente la prima, ma non è certo l’unica. Oltre alle blockchain che custodiscono svariate criptovalute (da quelle più antiche come Dash o Litecoin fino a quelle più recenti e dagli scopi più ampi come BNB di Binance o Cardano), vale la pena di soffermarsi sul primo progetto che ha sfruttato la tecnologia della blockchain per scopi molto più ampi della sola creazione di monete elettroniche.
Il canadese Vitalik Buterin è il giovanissimo programmatore (classe ‘94) che, nel settembre 2014, ha presentato al mondo il white paper di Ethereum: una blockchain che non solo permette di coniare la criptovaluta ether, ma sulla quale vengono per la prima volta implementati i cosiddetti smart contracts, contratti automatizzati che entrano in esecuzione non appena le condizioni sottoscritte tra le parti sono soddisfatte. L’intuizione di Buterin è cruciale: la blockchain può automatizzare non solo le transazioni economiche, ma accordi e scambi di ogni tipo.
Per fare solo un esempio, grazie agli smart contracts è possibile creare un sistema che faccia scattare automaticamente il pagamento alla consegna del lavoro concordato o che distribuisca automaticamente i proventi di un’impresa a tutti i partecipanti. Nascono così i primi progetti che provano a sfruttare le potenzialità della blockchain e degli smart contract per gli scopi più vari: da Follow My Vote, che studia come permettere a tutti di votare in maniera sicura tramite computer o smartphone, a LO3 Energy, che immagina un futuro in cui chiunque abbia pannelli solari sul tetto possa vendere energia ai vicini di casa attraverso aste automatiche basate su blockchain. Più di recente, la blockchain di Ethereum è stata al centro di importanti innovazioni come gli NFT (la certificazione basata su blockchain che permette la compravendita di oggetti digitali collezionabili) e di tutto l'ecosistema del cosiddetto web3.
C’è un altro aspetto cruciale in Ethereum. Fin dall’inizio, Buterin si è infatti dimostrato consapevole dei due principali limiti della blockchain che gestisce i bitcoin: la lentezza e il consumo energetico, entrambi legati alla colossale corsa computazionale necessaria per convalidare le transazioni. Oggi, per esempio, la produzione e l’utilizzo dei bitcoin consumano qualcosa come 77 terawattora all’anno, più o meno quanto una nazione come il Cile. La difficoltà di questo meccanismo limita inoltre le transazioni di bitcoin a non più di sette al secondo, ingolfando il network ogni volta che la richiesta cresce.
Il problema è stato recentemente risolto da Ethereum – e da una serie di blockchain minori – attraverso la cosiddetta “proof-of-stake”. In questo sistema, i miner e la loro colossale competizione a suon di potere di calcolo sono rimpiazzati dai “validatori”, che per partecipare non devono più risolvere puzzle algoritmici, ma semplicemente depositare una somma di denaro (stake) come cauzione (si parte da un minimo di 32 ether, in questo momento circa 50mila dollari). Più soldi si depositano, maggiori sono le possibilità di essere selezionati tra i validatori, che devono confermare la transazione che sta avvenendo sulla blockchain ottenendo come ricompensa altri ether. Chi viene scoperto a truffare il sistema perde una parte o tutti i soldi depositati.
Altre ulteriori innovazioni, come lo sharding, mirano a suddividere la blockchain di Ethereum in 64 catene autonome ma collegate, aumentando la capacità di elaborazione delle transazioni (ma questo non avverrà prima della fine del 2023). Non appena la proof-of-stake di Ethereum è diventata realtà, nell’autunno 2022, i consumi si sono ridotti del 99%, mentre le altre novità che saranno gradualmente introdotte dovrebbero rendere questa blockchain capace di completare anche 100mila transazioni al secondo (una quantità paragonabile a quelle gestite da un network come Visa).
Bisogna infine sottolineare come oggi ci siano anche numerose blockchain private, note solitamente con l’acronimo DLT (digital ledger technologies, tecnologie del registro digitale). La differenza rispetto alle blockchain pubbliche è soprattutto una: solo le persone autorizzate possono accedere a questi servizi, ai quali inoltre non è quasi mai associata una criptovaluta (anche se nulla lo impedisce). Sono strumenti che vengono solitamente impiegati da aziende legate alla grande distribuzione, alla logistica o altro ancora per certificare i prodotti o tenere traccia dei loro spostamenti.
Sono passati quasi quindici anni da quando Satoshi Nakamoto ha presentato al mondo i bitcoin e la blockchain, una tecnologia dalle grandi potenzialità ma che, fino a oggi, non è ancora riuscita a soddisfare le enormi aspettative in essa riposte. Dopo lo scoppio della bolla degli NFT, il crollo del mercato delle criptovalute e l’attenzione calata nei confronti del cosiddetto web3, una sola cosa è chiara: affinché la blockchain superi lo scetticismo che la circonda c’è ancora bisogno di tempo.
Immagine in apertura: Courtesy Shubham Dhage via Unsplash