Nell’Aprile del 1983, la giornalista, docente e critica d’arte Francesca Alinovi si avventurava per Domus 638 sui dancefloor di una serie di discoteche dell’Emilia Romagna raccontandone il rapporto con il design.
Addio al primo club queer d’Italia, raccontato da Domus negli anni Ottanta
Con approccio visionario, quaranta anni fa Francesca Alinovi visita e racconta per Domus il Kinki Club di Bologna. La recente chiusura è l’occasione per riflettere sul ruolo del clubbing nell’Italia contemporanea e nel mondo della creatività.
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- Lorenzo Ottone
- 29 marzo 2022
Tra queste c’è il Kinki, club bolognese che la Alinovi, termometro dell’underground internazionale sull’asse Bologna-New York, racconta dal punto di vista degli interni. Un approccio alla narrazione del clubbing per l’epoca senza dubbio inedito e visionario, che Domus già aveva intrapreso a partire dai ‘60 e che sarebbe stato successivamente condiviso da Fulvio Ferrari nel suo Discoteca 1968 – L’Architettura Straordinaria (Galleria, 1989).
La “musa del DAMS”, commentando gli interni progettati da Fabrizio Passarella e Giovanni Margotto utilizzando neon schermati da superfici in resina uniti a affreschi erotici, fontane e props dismessi da Cinecittà per vecchi film peplum, descrive un locale che si presenta “in un lussureggiante stile pompeiano” con un ambiente “destinato all’ebbrezza come alla calma olimpica”.
Sono passati solo pochi anni da quel servizio, quando Micaela Zanni, all’epoca adolescente, entra per la prima volta al Kinki, non lasciandolo più. Negli anni passerà da esserne PR a comproprietaria, e gestendone fino a poche settimane fa la direzione artistica.
L’occasione per parlarne, infatti, arriva con l’inaspettata chiusura dello storico locale. Le responsabilità non sono da ricercarsi nel prolungato stop pandemico, quanto nel collassamento del solaio avvenuto due anni fa in seguito a dei lavori condominiali sul portico dell'edificio. A fare il resto, la conseguente negligenza da parte delle istituzioni verso la discoteca, vista non come opportunità culturale ma come “una cosa da mal tollerare, come abbiamo visto con il Covid”, denuncia Zanni.
Dai capelloni alla Contestazione
Eppure il locale ha nutrito per oltre cinquant’anni un rapporto biunivoco con il tessuto sociale bolognese. Il club nasce nel 1958 sotto le due torri con il nome di Whisky a Go Go, sul modello di successo dell’omonimo locale parigino.
E’ però il Whisky a Go Go di Los Angeles a ispirarne la programmazione che, grazie al promoter Beppe Brilli, fa del club la mecca bolognese per il nascente fenomeno Beat. Sul suo palco si alternano nomi di prestigio come Lucio Dalla, Equipe 84, Judas, Mal & I Primitives, Casuals e, come leggenda vuole, anche Jimi Hendrix. Il chitarrista si trovò a suonarci (c’è chi dice che, invece, fosse lo Stork) nel 1968, in una jam dopo la sua performance al Palazzo dello Sport, poi culminata con una spaghettata di mezzanotte. Il Kinki, oltre che per la musica, è infatti anche casa per i “biassanot”, i nottambuli bolognesi.
Dopo una breve parentesi come Whisky Club, il locale diventa prima Champagne Club e poi, aprendo durante il giorno, Pubsi. Durante gli anni della Contestazione “era il posto dove si ritrovavano gli studenti che marinavano la scuola”, racconta Zanni.
Il primo gay club in Italia
Nel 1975 il passaggio a Kinki Club e la transizione a locale “only man”, il primo in Italia. I DJ si alternano a performance di artisti che contribuiscono ad affermare il suono e l’estetica dell’avanguardia queer italiana: ci sono Loredana Bertè, Cristiano Malgioglio e l’androgina Amanda Lear.
Fedele all’aggettivo da cui trae ispirazione per il suo nome – leggesi “comportamento sessuale che la maggior parte delle persone considererebbero strano o inusuale” alla voce ‘kinky’ del dizionario di inglese Oxford – il club è responsabile di un’interpretazione nuova dello spazio della discoteca. Un teatro di sperimentazione e trasgressione, non solo musicale e artistica, ma anche stilistica e sessuale. Un ruolo che negli stessi anni è condiviso da pochissimi altri locali dello Stivale: tra questi l’Easy Going di Roma e, solamente più tardi, il Plastic di Milano.
L’isola che non c’è
“Quando sono entrata per la prima volta, nel 1986, mi sono innamorata non tanto dell’ambiente quanto della musica. Non la sentivi da nessun’altra parte in Italia, se non al Palladium di Vicenza o sulle stazioni radio americane.”
Sono passati solamente tre anni dall’articolo della Alinovi e il Kinki che ricorda Micaela è un locale totalmente rinnovato. Pochi mesi prima, l’apertura in città di un locale con dark room, aveva segnato la migrazione della clientela del Kinki, decretando la fine della sua door policy esclusivamente omosessuale. Nel tentativo di risollevarne le sorti, un commesso australiano del negozio di dischi Nannucci prende le redini della consolle.
“Al Kinki c’erano sempre due file: una di quelli che speravano di entrare, una – dall’altra parte della strada – di persone che si mettevano a vedere questa gente stranissima, pazzesca, che entrava al locale”, racconta con sottile accento emiliano Zanni, le cui parole catturano come istantanee – laddove i flash delle macchine fotografiche erano proibiti – il ruolo chiave che il club ha avuto non solo per la musica, ma soprattutto per il costume e il design in Italia.
C’è una fotografia di Micaela – poi finita nell’Aprile 1990 sulla copertina della rivista Discotec, “il Vogue delle discoteche” – seduta su una scala pieghevole, con il volto avvolto da un boa di piume nere, come una Audrey Hepburn del clubbing. Uno scatto-manifesto che legittima le parole dell’art director: “Il Kinki era la mia isola che non c’è. Ci trovavano la vita tutte quelle persone che non ce l’avevano di giorno. Specialmente i transessuali, perché nessuno li voleva.”
Bologna come New York
Il capoluogo emiliano, viveva in quegli anni una stagione irripetibile, culmine di uno zeitgeist artistico che vedeva la città farsi laboratorio a cielo aperto del post-’77, iniziato con la Traumafabrik, e proseguito con i fumetti di Andrea Pazienza, le acconciature impossibili di Orea Malià, e le suggestioni artistiche newyorkesi introdotte da Francesca Alinovi. E ancora la No Wave della Italian Records da un lato, il clubbing della riviera dall’altra. Due libri ne catturano la disillusione mista a edonismo al neon di questa nuova generazione: Un Weekend Post-Moderno di Pier Vittorio Tondelli – nelle cui pagine trova spazio anche il Kinki – e Fluo di Isabella Santacroce, sulla cui copertina si riconosce, in un gruppo di ragazze dagli outfit sonici, Micaela Zanni.
“Bologna perché non aveva niente da invidiare a New York. Anzi a NY c’era molto degrado pur avendo un underground fervido,” racconta Zanni.
Per capirlo sarebbe sufficiente ricordare che il Kinki, già dagli ‘80 disponeva di un bagno X, ovvero una toilette gender neutral costretta a chiudere, tra tante parole di inclusione, dalla burocrazia degli anni ‘90.
Il laboratorio del design internazionale
L’estasi edonistica fa da fil rouge con la tradizione del Kinki, mentre gli stilisti per ispirarsi frequentavano la pista per ispirarsi.
“I protagonisti della fase omosessuale del locale furono gli attori dell’esplosione di colori. C’erano persone tutte sopra le righe, diverse tra loro, VIP e gente comune, ma che interagivano perfettamente. Oggi lo definiresti cultura, ma all’epoca era la norma,” spiega Zanni, secondo cui il Kinki ha rappresentato per Bologna quel palcoscenico di libertà sessuale ed estetica che a inizio decennio era stato il Blitz di Londra, incubatore del futuro artistico della capitale inglese e di personalità come Boy George.
Se al Blitz si permettevano di rimbalzare Mick Jagger, ritenuto non più interprete dello spirito del tempo, al Kinki potevano vedersi rifiutato l’ingresso star del calibro di Mick Hucknall dei Simply Red o Rupert Everett.
“Pensa che in quegli anni Matt Dillon si era trasferito a Bologna, i ragazzi dello Studio Zeta venivano apposta da Milano per il Kinki. Per non parlare di tutta la gente che veniva da Roma per fare i commessi del negozio Emporio Armani, il primo in Italia, che il gestore, da noi affettuosamente chiamato ‘La Beppona’, selezionava,” ricorda ridendo Micaela.
Cosa resta del clubbing in Italia
“In tempi di spettacolarità di massa, una speciale attenzione viene riservata ai luoghi in cui si misura la spettacolarità individuale,” scriveva Francesca Alinovi interrogandosi sul fenomeno delle discoteche in Italia su Domus 638. A quasi quarant’anni di distanza, in tempi di spettacolarizzazione dell’io digitale sembra ossimorico osservare le piste svuotate, incapaci di attrarre una generazione tanto entusiasta alla sovraesposizione mediatica quanto spaventosamente riluttante all’aggregazione delle carni.
“Oggi la ricerca di massificazione è così grande, che la dimensione del singolo club non è sufficiente,” spiega Zanni. Un fenomeno che, secondo la dea ex machina del Kinki, è sintomo della rassegnazione di una nuova generazione alienata dal lockdown e dall’abuso di strumenti tecnologici. “C’è molto progresso, ma poca vita. Manca la trasgressione, da intendersi come volontà di andare oltre il convenzionale”.
Così, mentre la discoteca come un caro defunto viene istituzionalizzata attraverso progetti celebrativi (il documentario Disco Ruin di Lisa Bosi, la fotoserie Disco Mute di Alessandro Tesei e Davide Calloni), scompare il club come spazio sociale e, soprattutto, di sperimentazione artistica e formazione umana. Di pari passo con il tracollo della militanza sottoculturale, il pubblico è così incapace di fidelizzarsi a un locale, mettendo in luce come oggi il clubbing sembri essere un affare per gli ultimi fedelissimi delle generazioni passate.
Come ricorda Micaela, “una volta il locale poteva essere orrendo, ma era la gente a brillare, a emanare energia pazzesca. Oggi come oggi il locale può essere bellissimo ma la gente è anonima, vale meno che la carta da parati.”
Immagine di apertura: Ingresso Kinki con pavimento in amianto nero. Domus 638, aprile 1983