Se usate in maniera inappropriata, sono un sintomo lampante di una (mancata) appartenenza sociale. Posizionate sul piatto in un certo modo, offrono ai camerieri segnali inequivocabili sul nostro appetito e sul gradimento dei piatti consumati. A tavola, dovrebbero essere disposte secondo un vero e proprio protocollo; salvo poi infischiarsene preferendo un’apparecchiatura disinvolta che, sacrificata l’etichetta, premia la vicinanza e la convivialità.
Una grande ritualità ammanta dunque questo oggetto del quotidiano, che nelle sue espressioni più barocche mobilita una propensione alla specializzazione quasi perversa – i più imponenti servizi di posate raggiungono fino a 18 pezzi, salvo poi venir usati nella vita “vera” in una formula ristretta e generalista, generalmente limitata a soli tre pezzi.
A dispetto di tutte queste regole, l’utilizzo delle posate è un’abitudine abbastanza recente, in particolar modo per quanto riguarda la forchetta. Comparsa poco prima dell’anno Mille e messa al bando da papa Innocenzo III come una lussuria, si affermò in Italia a partire dal XIV secolo, per traghettare poi in Francia attraverso Caterina de Medici. La quale, tuttavia, non riuscirà ad imporne l’uso in modo definitiva: i nobili, persino il Re Sole, preferivano mangiare il cibo con le mani, rifiutando l’utilizzo di uno strumento che impone gesti controllati e che sembrava allontanarli da un rapporto più immediato e carnale con le pietanze.
Negli ultimi anni, la tendenza dell’apparecchiatura della nostra tavola si è fatta sempre più spontanea e leggera, più sensibile alla qualità che non al numero dei pezzi esibiti. L’acciaio, indistruttibile e facile da pulire, ha rimpiazzato l’argento come materiale di elezione delle tavole di tutto il mondo. Ancora, il culto della democratizzazione del quotidiano si è imposto come inclinazione alla “buona forma”, salvo poi divertirsi a sperimentare morfologie impreviste, o ad abbracciare nuovi materiali sostenibili capaci di adattarsi ad un uso delle posate che non richiede necessariamente la compresenza della tavola.
Acquisto che compiamo in maniera meditata, le posate sono presenze longeve e, almeno nel mondo Occidentale, imprescindibili nella nostra vita di tutti i giorni. In un mondo ossessionato dal protagonismo del cibo, neanche le nuove forme più ardite di food design, o i nuovi packaging del food delivery, o tantomeno le pessime abitudini di un pasto svuotato dalla socialità dal confinamento, sembrano destinate a privarci del loro ruolo di complici e mediatrici.
Immagine in apertura: Fjord Teak Flatware, Jens Quistgaard, Dansk International Designs, 1953