C’è un intervento televisivo del 1967 in cui Raffaella Carrà, alle prime esperienze da conduttrice e con un’acconciatura pomposamente cotonata ancora lontana dal suo iconico carré, conduce lo speciale Tempo di Samba. Assieme agli ospiti Roberto Carlos e Astrud Gilberto, Raffaella si muove in una scenografia in cui si alternano gradoni a pattern psichedelico, figlio della Swinging London, su cui suona l’orchestra del maestro Cichellero con un cantiere dal gusto metafisico fatto di impalcature metalliche (padiglione del Giappone alla Biennale anyone?).
Tempo tre anni e le scene minimal-psichedeliche di Armando Nobili – similmente a quelle essenziali di Carlo Cesarini da Senigallia per Studio Uno – lasciano il passo a quelle di Tullio Zitkowsky che, sia architettonicamente che simbolicamente, lanciano l’Italia nel nuovo decennio. Mentre Carrà con una malizia che trova nella sua tutt’altro che ingenua leggerezza l’affermazione del discorso sul genere che infuoca il dibattito femminista del tempo, Zitkowsky concepisce un geodome dal gusto fantascientifico per le esibizioni dei cantanti in gara e per gli sketch del duo formato da Corrado e Raffaella. Lo scenografo romano fa un uso sapiente e pionieristico (sarà lui a curare una delle prime scenografie a colori della televisione pubblica e utilizzare un tappeto di erba “quasi vera” realizzata in rafia annodata a mano per lo show proto-ecologista C’è Celentano del 1972) dell’intera superficie dei teatri di posa, andando a collocare inusualmente il pubblico sui lati e introducendo i Settanta in RAI con tabelloni elettronici.
Sono anni in cui, d’altronde, la RAI si avvale di professionisti come Achille e Pier Giacomo Castiglioni e del grafico Pino Tovaglia per gli allestimenti del suo padiglione alla Fiera di Milano del 1965. Di conseguenza le scenografie RAI incarnano l’apice del design per interni in Italia, con una forma mentis capace di sperimentazioni folli pur essendo calata in un contesto democristiano, in cui la sperimentazione antiarchitettonica e op-art delle discoteche ‘radicali’ si sposava con l’ufficialità a tre bottoni della televisione pubblica. Un fil rouge che lega la RAI al più ampio discorso del design per interni e industriale del tempo, due dimensioni della disciplina che trovano in Raffaella Carrà un volto nuovo.
Sia conduttrice che cantante, Raffaella Carrà prende per mano il sabato sera RAI facendosi carico di traghettarlo dai ‘60 ai ‘70, svecchiando l’immagine del varietà democristiano...
Sia conduttrice che cantante, Raffaella Carrà prende per mano il sabato sera RAI facendosi carico di traghettarlo dai ‘60 ai ‘70, svecchiando l’immagine del varietà democristiano dei vari Mina e Corrado (si veda un siparietto di Canzonissima ‘70 in cui la nostra, pungentemente saffica, lega i polsi al conduttore con un foulard di seta semitrasparente) riuscendo là dove i molti musicisti con cui Via Mazzini aveva provato a intercettare un pubblico più giovane non erano pienamente riusciti.
Non stupisce, dunque, che a cavallo dei due decenni la Carrà sia testimone prima della Innocenti e poi dell’Agip, entrambi simboli del progresso e del design industriale fiore all’occhiello di un’Italia che non aveva ancora scoperto la contestazione e le controversie sindacali che avrebbero presto messo a fuoco lo Stivale.
Per Innocenti Raffaella è il volto della Mini 1001 e del calendario 1970, per cui viene fotografata assieme a mezzi quali la Lambretta DL e il Lui; uno degli scooter meno fortunati quanto più avveniristici nella comunicazione dai forti richiami sci-fi sullo stile delle campagne che negli stessi anni B&B proponeva per la sua serie di sedute UP di Gaetano Pesce (1969).
Nel 1972, invece, per la campagna Agip “Big Bon” – distesa sul cofano di un prototipo Lamborghini a sei fanali, con un set di valige Fendi, o circondata da benzinai a lei fedeli come i suoi ballerini – Carrà già unisce l’Italia, facendosi madrina di quella “penisola al volante” di cui canta con disincantato cinismo Piero Ciampi. Nelle pubblicità Raffaella indossa una tuta in PVC nero che simultaneamente prosegue la rivoluzione sessuale che ha iniziato ad attuare sul piccolo schermo e si fa epitome del canto del cigno della plastica nel design italiano del tempo, tanto nella moda quanto nell’arredo per interni, a un anno dalla crisi petrolifera del ‘73. Tuta con grafica modernista a freccia in un gradiente rosso-arancio che tanto ricorda quello pensato da Piero Gratton sia per la rivoluzionaria divisa ‘ghiacciolo’ dell’AS Roma 1978/79 firmata Pouchain che per il lancio del nuovo logo del TG2.
D’altronde Raffella è sempre stata capace di introdurre gli italiani ai nuovi step della cultura popolare, la liberazione sessuale e il colore in tivù...
Se Gratton è l’uomo del passaggio al colore del cavallo di Viale Mazzini, Raffaella non può mancare – al fianco di Mina – alla conduzione di Milleluci, primo varietà a colori della televisione italiana. Colore che dominerà le scene fantascientifiche – non senza reminiscenze delle utopie scenografiche e concettuali della Patty Pravo di Stryx a firma di Enzo Trapani – del musical “Starlight Express” inserito all’interno del varietà Buonasera Raffaella del 1985, in cui la nostra passa senza soluzione di continuità da coreografie metronomiche in armatura spaziale a intervistare in tailleur bianco Giulio Andreotti.
D’altronde Raffella è sempre stata capace di introdurre gli italiani ai nuovi step della cultura popolare, la liberazione sessuale e il colore in tivù prima, i programmi con l’interazione del pubblico da casa (Pronto Raffaella) e del proto-reality (Carramba Che Sorpresa) poi.
Raffaella quintessenzialmente nazionalpopolare, bonaria e familiare, ma altrettanto capace di incarnare la scheggia impazzita del (buon)costume italiano. Scoprendo l’ombelico (con un completo pantaloni e crop top bianco a collo alto e lacci in seta ad avvolgere le braccia pensato per il suo debutto a Canzonissima ‘70) libera l’Italia, introducendo, con ironia frizzante ma per questo non meno ficcante, tematiche vicine alle comunità queer, di cui in quegli anni diventa - assieme a Renato Zero - icona spontanea priva di malizia politica.
“Luca” mette in luce questo dualismo sociale di Raffaella Carrà nel verso cardine: “io lo pensavo tutto il giorno intero senza mai tradirlo manco col pensiero, ma un pomeriggio dalla mia finestra lo vidi assieme un ragazzo biondo [...] ma da quel giorno non l’ho visto proprio più.”
Manifesto di un approccio mediterraneo alla vita, ponte tra la latinità del vecchio continente e quella del Sud America, Raffaella riesce, molto più dei tentativi di Lucio Battisti, nel diventare portavoce di un suono e di una cultura pan-latina che tutt’ora (ahimè) ancora domina le classifiche estive.
Nel 1984 sigla un contratto come testimonial delle cucine Scavolini, “Italiane perché belle, pratiche da viverci e fatte per durare” come recita nello spot una Carrà maternamente icona del focolare ma non per questo meno diva. E oggi, che a rappresentare le cucine Scavolini sono rimasti gli chef da talent show, non possiamo che lanciare una petizione affinché il prossimo Compasso d’Oro venga assegnato, ad honorem, al caschetto platino scolpito dai parrucchieri Vergottini in qualità di icona del design italiano nel mondo.
Immagine di apertura: Raffaella Carrà su uno scooter Lambretta.