Classici. Al punto da diventare anomali nel panorama contemporaneo, dove i designer hanno una formazione specialistica nella disciplina oppure mutuano procedimenti e riferimenti dal mondo dell’arte. Stine Gam ed Enrico Fratesi, al contrario, sono designer puri nel senso più tradizionale del termine.
GamFratesi
Designer puri, insofferenti all’autoproduzione, Stine Gam ed Enrico Fratesi raccontano la loro installazione al Circolo Filologico su come il progetto prende forma nella mente dell’artista. #MDW16
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- Domitilla Dardi
- 12 aprile 2016
- Milano
Innanzitutto perché si formano entrambi come architetti, fatto ormai sempre più raro nella loro generazione. Si conoscono a Ferrara durante l’Erasmus di Stine, che era reduce da un’esperienza in Giappone nello studio di Fumihiko Maki. Scoprono subito una comune passione per il prodotto e per l’arredo in particolare, che intendono come mezzo in grado di generare comportamenti nello spazio. Nessuno dei loro progetti, infatti, può considerarsi esente dal riferimento spaziale e dal movimento del corpo in un contesto. In un certo senso, il loro è un approccio al design vicino a quello dei maestri italiani di prima generazione. Alla Castiglioni o Zanuso, per intenderci, che non mancavano mai di pensare a un utilizzo dei loro pezzi in un ambiente, fosse esso progettato da loro o meno. Un’attitudine a vedere il mobile anche quando non è in uso, o quando è utilizzato da soggetti diversi. Degni eredi di questa storia, spesso i progetti dei GamFratesi sono, infatti, microarchitetture, microcosmi, che contengono una relazione più ampia con ciò e chi li circonda.
Altro punto focale è il dialogo privilegiato con l’industria e la sostanziale indifferenza all’autoproduzione: “Siamo designer vecchio stampo. Ci piace il fatto che il processo di industrializzazione sia fatto dalle persone e restiamo affascinati dall’amore fatto di tante persone che scrivono una storia insieme”.
Nel loro design è forte anche la traccia dei maestri scandinavi e non solo per il riferimento alle forme organiche e alla palette cromatica. Principalmente, perché quei designer – specialmente quelli danesi degli anni Cinquanta che loro conoscono a fondo – avevano ben chiaro un obiettivo principale: il benessere psico-fisico che un mobile onesto e ben fatto genera in chi lo usa. E, infatti, alcuni di loro, come Finn Juhl o Poul Henningsen, avevano a cuore il ruolo sociale del design nel loro Paese, aiutati da una classe politica che riconosceva questo aspetto, anche in scarsità o totale assenza dell’industria e del suo potere economico. E a Copenaghen, non a caso, Stine ed Enrico hanno deciso di fondare la loro sede di lavoro e vita.
Un progetto che ben rappresenta la loro visione è stato uno scrittorio con calotta d’isolamento acustico prodotto qualche anno fa da Ligne Roset. “Rewriter – spiega Fratesi – è la ricerca di uno spazio di intimità per piccoli momenti di concentrazione. La persona deve riconoscere il prodotto nelle sue componenti funzionali di base, tradizionali; ma tramite l’elemento iconico si attivano nuove interazioni. A volte è un piccolo dettaglio quello che cambia il modo di vivere un prodotto. È un’induzione al comportamento molto delicata”. Quindi, una volta messa a punto la funzionalità, c’è una storia che il mobile è chiamato a farci scrivere; ma si tratta di un racconto diverso per ciascuno dei possibili utenti. Per questo, tanta parte del loro processo progettuale è teso a immaginare usi e profili di utenti molto diversi tra loro e a come, ben prima della tipologia, esista la funzione. Anche nei lavori nei quali è l’aspetto più iconico a risaltare, a monte c’è sempre una storia. È il caso dell’installazione che lo scorso anno in un chiostro medievale ha incantato il pubblico della Design Week milanese: “Per San Simpliciano abbiamo parlato con il custode che ci ha raccontato come quello fosse uno spazio nato per riflettere: in un attimo, abbiamo pensato di riflettere tutta la piazza negli specchi!”.
Anche quest’anno si confronteranno con un lavoro d’installazione e curatela, all’Istituto Filologico Milanese in via Clerici, dedicato al modo in cui il progetto prende forma nella mente dell’artista, dal primo input cerebrale. Pensare alla mente come primo progetto diventa allora una forma mentale vera e propria. L’idea nasce anche qui dal luogo: “Il Filologico è un luogo dove si pensa a come le cose si originano. Quindi abbiamo pensato di andare all’origine prima del progetto; e la risposta è stata la mente”.
Sul versante del prodotto, continuano le collaborazioni insieme a Gebrüder Thonet Vienna (con un appendiabiti modulare da muro ispirato alle costanti rotazioni del classico waltzer viennese) e Porro (con Voyage, sedia che continua il linguaggio estetico di Traveller, ma con nuovi materiali e proporzioni e un desk in legno e metallo). Passando dal living al bagno sono inoltre stati invitati a collaborare con Axor al progetto Waterdream 2016 e con Ceramica Globo, per la quale disegnano Display, una serie di lavabi in ceramica progettati dividendo lo spazio lavabo in con una serie di spazi ed aree personali.
Ognuno dei loro progetti passati e presenti è intriso di quella coerenza che solo una consapevolezza progettuale costruita nel tempo può dare. Ma c’è qualcosa che non progetterebbero mai o da cui prendono le distanze? Pongo questa domanda a Enrico che da un lato è convinto che “il design non ha limiti” e vive bene in una città come Copenaghen dove l’attenzione al buon progetto permea ogni spazio pubblico o privato. Ma dall’altro pensa a quando fa ritorno al suo paese in Italia, alla provincia dove c’è tanto di “sbagliato”, di non progettato o progettato male e aggiunge: “Il rischio del perbenismo nel design mi spaventa. Dove tutto è sbagliato puoi liberare la mente. Quando tutto è over designed invece diventi schiavo”. E allora come preservi l’autenticità? “Limitandoti. La creatività durante il processo ha un limite e ci vuole un tempo di digestione delle idee”. E allora, a volte, come fanno loro, è importante anche imparare a dire di no e fermarsi, perché non c’è buon progetto senza un designer felice.
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