Francesco Garutti: Le tue opere nascono da indagini sociali, intrecciano urbanistica e quotidiano, politica e relazioni private. Si tratta di azioni pubbliche disegnate, progettate e coordinate da te in persona. Ti muovi come un catalizzatore, un regista nello spazio pubblico, costruisci un set nel quale lasci che le cose accadano, al limite tra capacità di controllo e massima naturalezza. Credo che la tua pratica, insieme a quello di altri giovani artisti, riveli in questo momento una fase di ri-definizione del territorio dell'arte. Una nuova attitudine. Vorrei che mi parlassi della genesi delle tue complesse performance pubbliche. Come le prepari?
Katerina Seda: È difficile rispondere a questa domanda, perché ogni opera nasce in modo diverso dalle altre. Spesso mi imbatto casualmente in luoghi, centri urbani o comunità nei quali rilevo un problema, una condizione di disagio, e cerco di cambiare le cose. Per me è molto più importante fare partecipare le persone, cercare di risolvere piccoli problemi della comunità, piuttosto che conquistare l'interesse di galleristi e curatori. Fare una mostra lo considero più che altro un premio, non l'aspetto principale del progetto.
Acting as a director: Katerina Seda
Una conversazione tra Francesco Garutti e Katerina Seda, in occasione di "Mirror Hill – No Light", alla Galleria Franco Soffiantino di Torino.
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- Francesco Garutti
- 16 gennaio 2011
- Torino
Potresti descriverci Mirror Hill (2010), uno dei due lavori che presenti qui in Italia da Franco Soffiantino?
Ho coinvolto 600 famiglie di una comunità alla periferia di Budapest che si chiama Mirror Hill. Si tratta di una parte di città molto ricca, costruita nel 2007, abitata da celebrità ungheresi, membri del governo, ministri. Ogni abitazione ha uno stile architettonico diverso, le case sembrano provenire da diversi luoghi nel mondo. A Mirror Hill non c'è un centro, un luogo comune di ritrovo. Nessuno conosce il proprio vicino, nessun abitante conosce perfettamente nemmeno il quartiere dove vive, nessuno di loro passa i giorni di vacanza in città. Le proprietà sono delimitate da alti recinti, tanto che attraversando il quartiere sembra quasi di trovarsi in un carcere. Lo scopo del progetto è quello di fare conoscere tra di loro i cittadini della zona attraverso una specie di gara. Ho chiesto a tutti gli abitanti di aprire le proprie porte di casa e di disegnare ciò che vedevano al di fuori, al di là del proprio ingresso. Dopo aver scelto 250 disegni, li ho raccolti in un libro al quale ho allegato il disegno di una mappa, la 'griglia' del quartiere.
Il 30 ottobre ho dichiarato aperta la gara che si sarebbe svolta durante quello stesso giorno, dalle 8 del mattino alle 8 di sera. La famiglia che sarebbe riuscita ad associare il maggior numero di disegni alle rispettive abitazioni avrebbe vinto un viaggio di due settimane in Florida.
È stato sconvolgente vedere le strade piene di persone con i libri aperti che guardavano gli edifici e cercavano le case. Ogni famiglia aveva trovato un sistema perfetto per individuare le abitazioni, suddividendo il libro in parti, andando in giro in macchina, in moto, in bici, a piedi. Alla sera, tutti si sono riuniti a parlare di quella giornata spesa insieme.
Il mio obiettivo era raggiunto. In tutte le mie azioni pubbliche cerco di costruire uno scambio tra le persone nei luoghi della loro vita quotidiana. In fondo, io non mi sento un'artista, non so cosa sono e non mi importa.
Dici di non essere un'artista. Il fine del tuo lavoro è dunque una pratica sociale? Da quello che dici sembra che l'arte sia per te un mezzo, un sistema da utilizzare.
Cerco di non definire mai la mia pratica come 'arte', soprattutto quando cerco di convincere la gente comune a partecipare ai miei progetti.
Penso a Giancarlo De Carlo, che sosteneva come la progettazione, per essere autenticamente partecipata, dovesse sempre parlare il linguaggio delle persone. Tu prima accennavi all'idea di 'griglia', parlavi di 'reticolo'. Sono termini decisamente afferenti al mondo dell'urbanistica. Credi ci sia una relazione tra il tuo lavoro e lo studio della città come organismo?
Non so rispondere bene. I critici intravedono nel mio lavoro cose che spesso io non progetto. Durante la Biennale di Berlino del 2008 ho cercato di legare, di connettere tra loro le persone attraverso la costruzione di un recinto presso lo Skulturenpark (Over and Over, 2008) e qualcuno ne ha letto un riferimento al muro di Berlino. Io credo che l'impulso principale delle mie opere sia il desiderio di proporre una visione.
Sono d'accordo. La costruzione di un'immagine, di un panorama, è il cuore del tuo lavoro. Penso a There is nothing there (2003), opera in cui hai chiesto alle persone di un paese di ripetere contemporaneamente e simultaneamente i riti della loro quotidianità.
Ho incominciato a occuparmi di questo progetto lavorando in alcuni piccoli paesi della Repubblica Ceca. Tutte le persone che vivono in questi centri si lamentano del fatto che non succede mai nulla e che le cose interessanti avvengono solo nelle grandi città.
Ho deciso di provare a smentirli, occupandomi proprio di 'normalità'.
Ho redatto un questionario chiedendo, di casa in casa, a tutti i cittadini cosa facessero abitualmente il sabato. Tutti hanno risposto più o meno le medesime cose, differenziandosi solo per gli orari. Sulla base delle risposte ho creato un programma di azioni da eseguire in una giornata, un programma uguale per tutti. Ci ho messo un anno a convincere i cittadini a compiere tutti le stesse azioni, tutte alla medesima ora, cercando di sottolineare quanto potesse essere bello compiere i riti della quotidianità insieme. Un sabato mattina, 315 persone sono andate tutte a fare la spesa, hanno spazzato davanti casa, hanno pranzato con la stessa pietanza, hanno passato il proprio tempo libero da amici o davanti alla Tv, oppure ancora facendo una passeggiata. Poi tutti si sono trovati a bere una birra in un pub, hanno guardato la televisione dopo cena e hanno spento la luce di sera, alla medesima ora. Alla fine delle performance, spesso succede che mi chiamino dai paesini limitrofi chiedendomi di andare lì a organizzare delle cose. Io rispondo sempre che potrebbero farlo anche autonomamente, non dovrebbero avere bisogno di me. Ma mi vogliono come coordinatrice!
L'opera produce uno scenario e contemporaneamente è una riflessione sul tema dell'ego collettivo. Progettando però questi complessi dispositivi per relazioni, la tua figura è destinata a scomparire dalla scena. Predisponi da sola un set articolatissimo e poi osservi da una posizione laterale.
L'idea della moltitudine di persone, della città come entità sociale, si integra a una parte grafica che caratterizza il tuo lavoro. In che modo la scrittura, gli elenchi di migliaia di nomi, le istruzioni dettagliate, i questionari e i diagrammi hanno a che fare con la realizzazione delle tue opere?
Il dato di partenza è trovare un problema, una condizione sociale sfavorevole. In No light (2010), per esempio, l'opera ragiona su come l'insediamento di una grande fabbrica della Hyundai abbia distrutto una cittadina ceca e di conseguenza le relazioni sociali del centro abitato.
Disegno tutte le difficoltà che una precisa condizione sfavorevole sta generando in uno specifico luogo, da più punti di vista. Alla fine, compongo dei grafici per cercare possibili soluzioni al problema, ed è solo durante questa fase dei lavori che capisco quante persone potrei includere nel progetto.
Le azioni, i tuoi lavori, sono quasi sempre caratterizzati da una doppia scala. Ti occupi di grandi moltitudini, ma in verità le tue intrusioni avvengono sempre sul piano privato. Ricordo il progetto USE- Uncertain States of Europe nel 2000, in cui si studiarono proprio i sistemi di auto-organizzazione delle masse…
Io solitamente non faccio progetti per una massa, ma per i miei vicini, per la mia famiglia; mi interessa molto anche vedere in che modo le loro reazioni potrebbero influenzare me stessa. Le mie non sono mai operazioni anonime.
Parlo sempre personalmente con ogni singolo abitante. I luoghi dove tendo a realizzare le mie azioni sono i miei spazi, i contesti nei quali vivo, dove voglio cambiare delle cose anche per me stessa: non sono un ingegnere che sta dietro una scrivania e disegna una casa che magari non funzionerà.
Andrò in Olanda prossimamente, mi hanno invitata insieme ad altri nove artisti a modificare, a migliorare un'architettura. I più bravi progettisti del Paese hanno appena costruito un enorme edificio residenziale all'interno del quale sono ammassati 5.000 pensionati. Quell'architettura non funziona, e ora hanno inventato gli artisti per risolvere tutto. Molti di loro lavoreranno sulle superfici dell'architettura, nessuno ha però ancora mai parlato con le persone che lì abitano.
Hai accennato al ruolo degli amministratori, dei politici. Hai fatto riferimenti ad architetti e cattivi ingegneri. Credi che gli artisti possano lavorare davvero in parallelo con questi attori, cioè integrare il mondo della politica e dell'urbanistica dall'interno, senza essere chiamati per risolvere le cose a progetto ormai realizzato?
Non lo so esattamente, ma credo che ogni individuo sia molto importante e possa costruire qualcosa. Ritengo che le cose che progetto siano estremamente banali e le potrebbero fare tutti. E qui c'è una grossa differenza tra me e altri artisti, per esempio. Molti di loro, infatti, se la prendono a morte quando qualcuno fa loro notare: "Questo l'avrei potuto fare anche io!". Io sono contenta quando me lo dicono, perché significa che ho trovato una soluzione possibile.