La GenZ è la prima nata digitale ed è la generazione che ha ripensato attraverso i nuovi strumenti virtuali il modo di vivere, di lavorare, di informarsi, di innamorarsi e anche di fare sesso, e di fare politica.
Una generazione che ha sì documentato la sua adolescenza con l’iPhone, ma che non è del tutto estranea a quegli oggetti che proprio per colpa dello smartphone da qualche anno sono spariti.
Descrivere la casa-tipo di uno zoomer, cioè di uno nato tra il 1997 e il 2012, è un esercizio possibile, ma attraverso lo specchio del virtuale. Perché pare che la Generazione Z abbia ben chiaro come vuole abitare, anche se una casa non ce l’ha e forse non ce l’avrà. Perché non può permettersela. E perché ha imparato che lavorare, socializzare, creare e difendere una propria identità non dipende più così tanto dall’essere radicati a un luogo specifico e unico.
Per una generazione che così rapidamente ha imparato a cambiare, a inventare e a leggere infinite immagini e informazioni, ad ascoltare più musica e viaggiare di più rispetto al passato riscoprendo il valore della narrazione, il design ha ovviamente il valore di una grande risorsa.
Tutto il design. Non solo quello contemporaneo, anzi.
La nostalgia per il passato ha probabilmente a che fare con una nostalgia per il futuro, la cui attesa si consuma in una dimensione disillusa e spesso amara. Così guardare indietro consola. Alla GenZ piacciono gli anni ’70 e il postmoderno, in attesa di una rivoluzione che, come spiegava Andrea Branzi nella sua Introduzione al design italiano, nel nostro paese è sempre stata più teorica che pratica, più desiderata che effettivamente attuata e probabilmente in un tempo che sembra non saperci dare certezze, evadere serve ancora. Ma quello che vale per l’Italia, come spesso accade, forse semplicemente anticipa il resto del mondo.