Non è una casa intesa come un’articolazione di volumi, quanto una sommatoria di superfici eterogenee, di scenografie parcellizzate, di oggetti emblematici ed iper-narrativi che si adattano al formato del social network per la quale è stata concepita e che contribuisce ad animare: TikTok.
Risposta italiana al modello delle collab-houses nate negli Stati Uniti, la Defhouse è un attico di 500 metri quadri che accoglie da qualche settimana otto influencer italiani tra i 16 e i 20 anni. Vivaio, o meglio hub di formazione nelle intenzioni dei suoi promotori, la digital company WSC® specializzata nel marketing strategico per influencer – oltre tre miliardi e mezzo di visualizzazioni registrate nel 2019 dai suoi rappresentati – la Defhouse ha l’ambizione di rinnovare interazioni ed estetiche di questa nuova frontiera della vita sui social. “Le collab-houses nel mondo hanno uno stile molto simile. Molto chiare, molto illuminate, con pochi oggetti e pochi elementi colorati, fanno sì che il social si leghi alla persona e non allo spazio”, racconta Giuseppe Greco, direttore artistico di WSC®. “Noi abbiamo voluto fare l’opposto: abbiamo messo tanto colore, tanti pattern elaborati che magari creano confusione, ma rendono unici i contributi”.
“La casa è il nostro paradiso, è fatta su misura per noi”, racconta Simone Berlini, influencer ventenne il cui ciuffo foltissimo si impone ad ogni suo passaggio su TikTok, dove lo seguono in due milioni. “Ogni parete e ogni oggetto possono essere usati come sfondo e come props: qualsiasi oggetto possiamo usarlo per farci venire un’idea per un video. È un’altra vita per noi, avere tutte queste possibilità”, ci spiega quando gli chiediamo dei ferri del mestiere della sua vita da influencer. Ed è proprio nella capacità degli oggetti e dei pattern di istigare contenuti, offrendosi come facilitatori di un messaggio basato sulla piccola coreografia scanzonata, sul lip-sync, su una mimica ritmica e stereotipata, comprensibile a qualsiasi latitudine proprio perché immediata e senza parole, che si regge il meccanismo che regola l’andamento di questa casa e della sua trasposizione sui social. Una nuova opacità tra reale e virtuale, dunque, anche rispetto al concetto di instagrammabilità tanto invocato nel recente dibattito sull’architettura, dove il gusto del colpo d’occhio celebrato dalle performance di like e followers si accompagna alle critiche contro il primato della ricerca formale sul contenuto, sul valore del messaggio.
“Questi otto influencer sono figli del pop, di un rinnovamento del pop”, spiega l’art director John Pentassuglia. Per questo la nostra idea era quella di reinterpretare questo immaginario partendo dal passato, e Memphis era il primo riferimento che ci poteva accompagnare in questa avventura”. Ridotta a pochi pattern essenziali, banalizzata per favorirne l’iperdigeribilità globale, la citazione più o meno filologica delle geometrie e dei pattern del movimento fondato da Ettore Sottsass si correda con oggetti emblematici della collezione Toilet Paper di Seletti, altro veicolo capace di generare empatia nella generazione Z in virtù del suo impatto dissacrante e immediato.
“Sui social c’è molta concorrenza, e confrontandoci anche con i ragazzi parliamo molto dell’importanza di essere unici, perché al di là delle mode e dei trend crediamo che i social siano per i ragazzi un importante mezzo espressivo. Per questo, anche la casa cerca di essere unica nel suo immaginario. Introdurre Memphis, introdurre i colori, introdurre i pattern, è un’opportunità per stimolarli a non essere come gli altri”, continua Giuseppe Greco. Difficile dire, al di là dell’esperienza di queste star baciate da numeri da capogiro, se anche per i comuni fruitori il tempo speso su TikTok corrisponda ad un arricchimento o, come avrà potuto constatare chiunque abbia visto un preadolescente confondersi con il suo schermo, ad una dipendenza totalizzante, quasi febbricitante.
Con i suoi due miliari di download nel terzo trimestre 2020, per buona parte frutto di quello che è stato definito come il miglior algoritmo di recommending engine, il social network cinese – che in Cina si chiama Douyin – non è solo l’App più scaricata dell’anno, persino più di Zoom. Accusato da Anonymous di essere un malware del governo di Pechino, trasformato in una sfida geopolitica da Trump che in piena campagna elettorale ha minacciato di oscurarlo per rappresaglia, TikTok scavalca con i suoi numeri da capogiro il classico fenomeno di costume, imponendosi tra i giovanissimi come una nuova lente attraverso la quale affacciarsi al mondo. Che sia questo il social destinato a prendere il sopravvento? Impossibile dare una risposta. Accontentandoci invece di registrarne i corto circuiti, quale quello insospettabile tra Memphis e la teen-culture. E rimaniamo in attesa delle sue evoluzioni, come quella dei tre minuti di durata per ogni contributo, che dovrebbe almeno un po’ sollevarci dall’improbabile predominio trash di scherzetti e balletti folk.