Dal 2020 Domus sta cercando – con un’apposita rubrica – di richiamare l’attenzione su di loro. Sono la nuova generazione di designer. Vengono da paesi e culture differenti, non sono tutti strettamente coetanei, in alcuni casi muovono anche da presupposti teorici apparentemente lontani. Eppure, c’è un humus comune che li collega. Una sensibilità diffusa. Un’idea del design come processo e non più solo come prodotto. C’è, soprattutto, la consapevolezza di agire, operare e progettare in un’epoca molto diversa da quella in cui agivano i Maestri, un’era in cui il design sempre più diventa professione di massa.
Fra i tratti comuni più ricorrenti e capillarmente diffusi in un territorio progettuale molto ampio c’è senz’altro quel filone che tenta di realizzare soluzioni innovative capaci di ridurre, riparare e contenere il malessere sociale e individuale sempre più diffuso. Potremmo definirlo il “design del disagio”: è quello che si esprime ad esempio nelle ricerche dell’olandese Sterre ter Beek (che con il suo progetto Almer cerca di offrire ai malati di Alzheimer un’esperienza sensoriale e forse perfino un rituale memoriale capace di risvegliare e rimettere in funzione le connessioni neurali disattivate) o nel progetto Rewind della giovane designer di Singapore Poh Yun Ru che si propone di aiutare gli anziani afflitti da demenza senile a rievocare i gesti familiari della vita di tutti i giorni e a non perdere del tutto la memoria.
In una direzione analoga va anche Sarah Hossli con le sue poltrone progettate per facilitare il gesto di sedersi e rialzarsi in anziani con difficoltà motorie. La sensibilità verso l’ambiente si esprime invece attraverso la diffusa attenzione per il riuso dei materiali e nella scelta di lavorare con materiali di scarto. La belga Mahaut van Peel, ad esempio, convinta che “la spazzatura di un uomo è il tesoro di un altro uomo”, utilizza le “macerie” altrui per realizzare qualcosa di utilizzabile, mentre la polacca Agnieszka Mazur trita e sminuzza reperti del mare, rimpastandoli poi con collanti diversi, in modo da dar vita a una sorta di atlante materico dei luoghi.
C’è un humus comune che li collega. Una sensibilità diffusa. Un’idea del design come processo e non più solo come prodotto.
Ma c’è anche chi – come il portoghese Ludovico Alves – enfatizza la funzione sociale del design nella convinzione che possa aiutare le persone a pensare, riflettere e sviluppare migliori capacità decisionali, o chi – è il caso del duo OrtaMiklos – pratica il design come performance e guerriglia, bric à brac oggettuale e riassemblaggio defunzionalizzato delle culture contemporanee, o ancora chi – l’italiano Giuseppe Arezzi – riflette sui temi legati all’antropologia e alla sociologia, in relazione alla produzione artigianale e al design industriale, sempre lavorando sulla multifunzionalità, trasformabilità e reversibilità.
In tutti c’è una pulsione evidente alla sperimentazione e all’innovazione, un’attenzione non occasionale alle potenzialità aperte dalle nuove tecnologie, e una sensibilità evidente per i temi dell’inclusione. Sospesi fra materiale e immateriale, consapevoli dell’importanza dell’estetica, visti tutti insieme disegnano una mappa di grande interesse, tanto più stimolante quanto più composta da prassi ed azioni non omologate.