Nel mondo dei videogiochi il design di un’opera passa sotto molti aspetti. Per citarne alcuni: la trama, la resa visiva, la giocabilità e il sound design, fattori che si sono sviluppati di pari passo con l’avanzare della tecnologia che ha aperto a nuove possibilità, dai primi “giochi elettronici” da bar o portatili a quelli che oggi si giocano in cloud gaming, sfruttando la potenza di server remotissimi, passando per le sale giochi e le console casalinghe. Per raccontare l’evoluzione, abbiamo selezionato coppie di titoli che hanno segnato con le loro affinità e differenze la progettazione videoludica. Riferimenti da manuale della storia della decina arte e al tempo stesso classici sopravvissuti praticamente indenni alla prova del tempo.
I videogiochi che hanno fatto la storia del game design
Come si progetta un videogioco? Una rassegna dei diversi generi attraverso i grandi classici che li hanno inventati e definiti. Dai puzzle ai metroidvania, dai platform ai giochi di ruolo, i titoli che hanno fatto la storia del gaming sono oggi riferimento imprescindibile per ogni nuovo progetto.
Tetris, Aleksej Leonidovič Pažitnov, 1984
Puzzle Bobble, GameBank Corp., Taito Corporation, 1995
Pac-Man, Tōru Iwatani, Namco, 1980
Bomberman, Hudson Soft, 1983
Duck Hunt, Shigeru Miyamoto, Hiroji Kiyotake, Nintendo Entertainment System, 1984
The House of the Dead, Akinori Nishiyama, Atsushi Seimiya, SEGA, 2003. Courtesy Nintendo
Out Run, Yu Suzuki, SEGA, 1986
Crazy Taxi, Dreamcast, 2000. Courtesy Google Play
Super Mario, Shigeru Miyamoto, Gunpei Yokoi, Nintendo, 1983. Courtesy Nintendo
Super Mario, Shigeru Miyamoto, Gunpei Yokoi, Nintendo, 1983
Crash Bandicoot, Naughty Dog, Sony Computer Entertainment, 1996
Street Fighter, Capcom, 1987
Tekken, Namco, 2009
Street Fighter, Capcom, 1987
Sensible Soccer, Sensible Software, 1992
Virtua Striker, SEGA, Arcade, 1994
The Legend of Zelda, Shigeru Miyamoto, Takashi Tezuka, Nintendo, Entertainment System, 1986
Final Fantasy VII, Square, 2001
Monkey Island, Ron Gilbert, Lucasfilm Games, 1990
Day of the Tentacle, Tim Schafer, Dave Grossman, LucasArts, 1993
Hitman, IO Interactive, Eidos Interactive, Square Enix, 2001
Metal Gear Solid, Hideo Kojima, Konami, 1998
Doom, id Software, 1993. Courtesy Nintendo
Halo, Bungie Studios, 343 Industries, Xbox Game Studios, 2001
Age of Empires, Ensemble Studios, Microsoft, 1997
Starcraft, Blizzard Entertainment, 1998
Sim City, Will Wright, Maxis, Electronic Arts, 1994
Civilization, Sid Meier, 1991
Silent Hill, Konami, Team Silent, 1999
Resident Evil, Shinji Mikami, Tokuro Fujiwara, Capcom, 1996
Super Metroid, Nintendo Research & Development 1, Intelligent Systems, Super Nintendo Entertainment, 1994. Courtesy Nintendo
Castlevania: Symphony of the Night, Ayami Kojima, Koji Igarashi, Michiru Yamane, Konami, 1997
GTA III, DMA Design, Rockstar Games, 2001
The Elder Scrolls Morrowind, Bethesda Game Studios, Bethesda Softworks, 2002
Ultima Online, Origin Systems, EA Games, 1997
World of Warcraft, Blizzard Entertainment, Vivendi Universal, 2004
Pokémon GO, Niantic, 2016
Candy Crush, King, 2012
Pokémon GO, Niantic, 2016
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- Mirko Tommasino
- 15 novembre 2022
Immagine di apertura: Sim City 2000, sviluppato e pubblicato da Maxis (1993)
Oltre a rappresentare una delle sfide impossibili per eccellenza ed essere stato al centro di un potenziale conflitto mondiale, Tetris è uno del puzzle game più longevi della storia, avendo creato l’omonimo sottogenere a sé. Molti dei rompicapi a scorrimento pubblicati dopo il 1984 hanno un grande debito con la creatura di Aleksej Leonidovič Pažitnov, tra cui annoveriamo il celebre Puzzle Bobble (nato dieci anni dopo), che porta i draghetti protagonisti dell’iconico Bubble Bobble in un rompicapo arcade che deve molto ai mattoncini colorati più celebri della storia, ribaltandone (letteralmente) la struttura dei livelli e l’interazione con i moduli da impilare.
Cosa accomuna i due prodotti e li rende iconici? La meccanica di gioco, la colonna sonora e i coloratissimi livelli, offrendo due modi di rappresentare un rompicapo dal mood quasi opposto, eppure molto simili, fondando l’intera esperienza sulla capacità di far scomparire oggetti tramite incastri e imparare a reagire molto rapidamente di fronte all’imprevedibilità dei colori e delle forme dei nuovi pezzi da posizionare.
Leggenda narra che il design di uno dei più grandi successi targati Namco, creato da Tōru Iwatani nel 1980, sia nato da una pizza a cui era stata tagliata una fetta, dando vita all’iconico personaggio giallo mangiatore di palline. Oltre alla rivoluzione grafica del riconoscibilissimo giallo pastello su sfondo nero (altrettanto influente dei quattro fantasmi - rosso, blu, arancione e rosa), Pac-Man è stato l’apripista di tutta una serie di cloni più o meno riconosciuti e a loro volta influenti nel mercato videoludico.
Tra di essi, contiamo il (forse) meno celebre – ma che comunque riscosse un grande successo – Bomberman (Hudson Soft, 1983), altro titolo simbolo del rompicapo all’interno di un labirinto apparentemente senza uscita. Entrambi i prodotti vantano non solo una trentennale (e più) serie di spin-off, ma anche l’essere giustamente identificati tra i capostipiti dell’intero genere, offrendo esperienze di gioco piuttosto simili, ma con differenze importanti, che vedono il giocatore agire sempre da protagonista nella scelta del giusto percorso e nell’interazione con l’ambiente circostante.
La pistola ottica è stata una delle rivoluzioni copernicane nel mondo dei videogame, a prescindere dal suo essere una periferica disponibile in sala giochi o in versione casalinga, portando il genere sparatutto a un livello mai provato in precedenza: un’interfaccia fisica inedita e accattivante che permette ai giocatori di immedesimarsi nei protagonisti del gioco. Da un lato abbiamo Duck Hunt, che dal 1984 fa litigare fratelli e sorelle davanti alla riuscitissima console NES utilizzando la meno riuscita NES Zapper, entrambe targate Nintendo, accompagnati dall’iconico cane che ride dei loro colpi mancati.
Parimenti, con The House of the Dead SEGA ha migliorato il concetto di laser gun dodici anni dopo, portando gli stessi litigi nel caotico clima della sala giochi, conferendo all’esperienza una sfumatura horror. A loro modo, entrambi i giochi hanno portato l’utilizzo della pistola ottica a livelli memorabili: da un lato l’incredibile imprecisione (dovuta soprattutto ai limiti tecnologici dell’epoca, che le malelingue definiranno “voluti”), e dall’altro un’accuratezza decisamente molto più precisa, notevole per il periodo storico e le circostanze movimentate in cui si svolgevano le partite.
Un’altra svolta importante in termini di hardware nell’ambito videoludico è rappresentata dal la periferica rappresentante riproduzione di un vero volante, senza (prima) e con (poi) force feedback, ovvero, la risposta controsterzante alla rotazione imposta dal giocatore. Nel 1986, SEGA lancia sul mercato destinato alle sale giochi Out Run, un cabinato tanto peculiare quanto affascinante: una postazione di guida completa, “verticale” (poi con una seduta, anzi due, e due volanti con pedali) per un nuovo, coloratissimo e frenetico gioco di corse.
Tredici anni dopo, con Crazy Taxi un cabinato dall’aspetto molto simile ma dal colore giallo invade le sale giochi, portando migliaia di adolescenti a scarrozzare in giro per la città dei poveri avventori digitali ignari del pericolo in cui sarebbero incappati. Entrambi i giochi hanno, in modi diversi, definito il genere corse, focalizzandosi nella categoria score attack con, da un lato, i checkpoint da raggiungere a bordo della Ferrari Testarossa Spider, e dall’altro i clienti da portare a destinazione entro il tempo prestabilito. Per anni, entrambi i prodotti hanno visto i loro seguiti approdare in molte console casalinghe, perdendo in parte la loro essenza originale ma, allo stesso tempo, adattandosi alle nuove correnti.
L’idraulico (ex carpentiere – a voler essere precisi) dai folti baffi è uno dei personaggi più celebri e riconoscibili della storia dei videogiochi, eppure non sono in molti a sapere che, prima di avere un titolo omonimo a vederlo protagonista, è stato uno dei personaggi di Donkey Kong, titolo platform arcade del 1981; e di Mario Bros, dov’è in azione con suo fratello Luigi all’interno di livelli che ricordavano molto il gioco sopra citato. Sarà solo nel 1985, però, che verrà consacrato a icona dell’intrattenimento, con Super Mario Bros, il cui level design e tema caratteristico godono probabilmente di una fama tutt’oggi ineguagliata all’interno del medium.
Super Mario Bros definisce quello che col tempo verrà conosciuto come genere platform a scorrimento orizzontale, in cui il protagonista si muove all’interno di un enorme e continuo quadro che scorre da destra verso sinistra mentre lui procede in direzione opposta, senza possibilità di tornare indietro. Ogni elemento di gioco ha conseguito una fama a sé: Mario, Luigi, i mattoncini, i gettoni d’oro, i funghi e perfino tutti i suoi nemici hanno ispirato (e continuano a ispirare) nel loro essere essenziali il design odierno di molti personaggi Nintendo e non solo. La serie ha avuto così tanto successo da essere declinata in innumerevoli modalità di gioco e console diverse nel corso dei decenni, e ha addirittura ha generato una moltitudine sterminata di cloni più o meno celebri.
Crash Bandicoot è il fortunato videogioco Naughty Dog (in seguito sviluppatore di Uncharted e The Last of Us) che ha dato il via all’ancor più fortunata e longeva serie per console Playstation (e PC), porta i concetti basilari di Super Mario Bros nel mondo 3D, facendo muovere un marsupiale umanoide in livelli a metà strada tra le scene più rocambolesche di Indiana Jones e, per l’appunto, le scatole (ovvero, i mattoncini) dell’idraulico Nintendo. Ovviamente, le differenze tra le due serie di titoli sono molteplici, tra cui la possibilità di Crash Bandicoot di tornare indietro all’interno del singolo livello – salvo impedimenti (a differenza dei vari Super Mario, dove lo schermo è bloccato), ma lo spirito alla base del gioco è lo stesso: completa un percorso irto di ostacoli e pericoli, possibilmente senza mai perdere nessuna vita, però la sostanza è davvero molto simile.
Per chi è cresciuto negli anni Ottanta e Novanta, sono due le parole gridate durante le zuffe tra coetanei: “Kamehameha” e “Shoryuken”. Tralasciando la celebre “Onda energetica” protagonista di tanti episodi dell’anime Dragon Ball, l’altra esclamazione nasce nel (e contribuisce a rendere celebre il) picchiaduro a incontri Street Fighter, distribuito nel 1987 da Capcom. In termini hardware, Street Fighter è uno dei giochi che ha reso a sua volta iconica la pulsantiera con joystick e bottoni tipica dei cabinati da sala giochi (oggi nota come arcade stick), con quattro possibili assi di movimento, da sei a innumerevoli pulsanti, combinazioni di spostamento e azioni che portano a mosse spettacolari, tra cui proprio lo Shoryuken.
Velocità, coordinamento e grandi riflessi erano le doti necessarie per poter competere contro gli altri giocatori e contro la CPU (ovvero, l’avversario controllato dal computer), e, assieme alla curva d’apprendimento legata ai singoli personaggi, rappresenta il fattore chiave del successo dell’intera serie: approcci diversi per i diversi tipi di scontri. La personalizzazione dei singoli personaggi, seppur con pattern ripetuti, è stata esplorata negli anni da molti altri titoli del genere, ma nell’ambito delle home console è Tekken (Namco, 1994 – versione arcade per sala giochi, 1995 versione domestica) ad aver affinato queste caratteristiche.
La fortunata serie giocabile prevalentemente su sistema Playstation, non solo diversifica i possibili personaggi per tipologie di approccio, ma inserisce anche delle significative differenze in termini di gameplay, andando a rendere profondamente peculiari i pugni, i calci e l’altezza a cui vengono inferti i diversi colpi all’avversario, rendendo fondamentali i riflessi dei giocatori e la coordinazione occhi-mani. Tutt’oggi, in mezzo a tanti altri picchiaduri più o meno mutuati da queste serie, Street Fighter e Tekken rappresentano due filosofie complementari di interpretare gli scontri diretti.
Il calcio è lo sport più famoso al mondo, ed è stato del tutto naturale che, prima o poi, venisse trasposto in forma videoludica. Prima del dualismo FIFA / Pro Evolution Soccer che ha monopolizzato gli ultimi decenni, il calcio è stato reinterpretato in forma digitale secondo due grandi scuole di pensiero, identificabili tramite la visuale di gioco: a volo d’uccello o laterale. Sensible Soccer debutta nel 1992 su piattaforma Amiga, e oltre alla componente manageriale (sì, alle spalle di Football Manager esiste una storia molto interessante, che meriterebbe un approfondimento a parte), è la riuscita giocabilità arcade ad aver sancito il successo del titolo Sensible Software, ottima sia con joystick che con gamepad.
Nel tempo, Sensible Soccer ha generato una pletora di cloni e seguiti, con una fanbase ancora attivissima. Per rivoluzionare quello stile di gioco, l’unica alternativa era offrire un’esperienza diversa, comunque molto legata alla tattica, ma cambiando letteralmente la prospettiva di gioco. Nel 1994, cogliendo l’ondata di entusiasmo dovuta ai mondiali, SEGA produce questo gioiello: Virtua Striker, il cui punto di forza sta nella forte componente arcade, nella velocità degli scambi e nella grande immersività nell’azione, data dal poter essere letteralmente accanto ai calciatori. Tutt’oggi, questi due approcci hanno del seguito nei modi differenti di affrontare i moderni videogiochi di calcio, portando a esperienze e visioni di gioco parallele, non comparabili tra loro.
Sul finire degli anni Ottanta, il fantasy vive una nuova giovinezza, in particolare in ambito videoludico, con due serie che hanno rivoluzionato i generi action-adventure (con una piega netta verso il gioco di ruolo) e JRPG (gioco di ruolo in stile giapponese): The Legend of Zelda e Final Fantasy. Da un alto abbiamo uno dei simboli della Nintendo che, assieme a Super Mario, ne ha consolidato l’affermazione in tutto il mondo e tutt’oggi rappresenta un trendsetter ogni volta in cui viene prodotto un nuovo capitolo della saga. Dall’altro abbiamo la creatura di Hironobu Sakaguchi, che ha letteralmente salvato un’azienda sull’orlo del fallimento con il suo successo: la Square.
Entrambi i titoli hanno riscritto le regole del proprio campo: da un lato un classico del racconto eroico, il salvataggio di una principessa, che va di pari passo con l’esplorazione di Hyrule, un mondo high fantasy che titolo dopo titolo si è raffinato in una mitologia complessa, attraverso un curatissimo processo di world building; dall’altro, lo schema che ha definito lo stereotipo del gioco di ruolo su piattaforma digitale, con il sistema delle battaglie a turno, con classi, livelli e abilità specifiche per ogni personaggio. Dopo oltre trent’anni, entrambe le fortunate serie mantengono intatta la rispettiva idea primigenia, adattandosi alle nuove generazioni di videogiocatori.
“Mi chiamo Guybrush Threepwood e sono un temibile pirata!”. The Secret of Monkey Island è ancora oggi la più celebre avventura grafica, prodotto di punta della Lucasfilm Games dal trio Ron Gilbert, Michael Land e Steve Purcell. Al centro di tutto c’è Guybrush, protagonista della storia, che sull’isola di Mêlée vuole diventare un pirata con impegno e (spesso per lui involontaria) ironia, accompagnato da oggetti e personaggi improbabili, enigmi da risolvere e… duelli d’insulti. La storia, l’ambientazione, le musiche e i molti riferimenti alla cultura pop hanno fatto entrare questo titolo a pieno diritto nell’Olimpo dei videogiochi, generando negli anni successivi una folta schiera di seguiti e un’ancor più folta serie di cloni (ufficiali o meno).
Proprio in questa seconda categoria rientra un altro titolo, prodotto dalla stessa Lucasfilm Games, che ha segnato il genere pochi anni dopo: The Day of the Tentacle, seguito del progenitore di entrambi i titoli, Maniac Mansion. Rispetto agli altri titoli della casa di produzione, questo videogioco è a sfondo totalmente umoristico, con stile cartoonesco e una narrazione surreale che si intreccia con la storia degli USA e un futuro distopico. Con The Day of the Tentacle non solo vengono rivisitati dei meccanismi ormai già classici moderni, ma l’interfaccia di gioco SCUMM si impone sul mercato come nuovo standard visivo per il genere, portando a una standardizzazione della UI che detterà legge per molti anni successivi.
Solid Snake è, nell’immaginario collettivo dei videogiocatori, un esempio perfetto di personaggio protagonista: un agente segreto molto abile e dal fascino indiscusso, ispirato nel nome e nei modi a un altro celebre “Snake”, Jena Plissken di Fuga da New York. Il punto forte dell’intera serie targata Konami (almeno fino alla rivoluzione dei capitoli moderni), però, nonostante il protagonista decisamente ben riuscito, è l’affermazione della meccanica stealth, che rappresenta una costante sfida per il giocatore sempre più complessa di livello in livello. Questo paradigma viene ripreso anni dopo da un’altra longeva serie prodotta da IO Interactive: Hitman.
In questo caso, il giocatore veste i panni di un assassino, il famoso Agente 47, silenzioso e letale nell’adempiere al suo dovere. Nel primo capitolo della serie, all’esperienza di gioco stealth si aggiunge sempre sotto il profilo del design del prodotto l’utilizzo della fisica ragdoll, che per la prima volta riproduce in modo maggiormente fedele e verosimile il movimento degli esseri umani, componente molto importante per le uccisioni all’interno dei vari livelli. In entrambe le serie, l’obiettivo è sempre lo stesso: riuscire nel proprio intento richiamando meno attenzione possibile. La telecamera fissa e l’alert mode instaurati da Metal Gear Solid vengono reinterpretati e aggiornati al nuovo linguaggio in Hitman, spettacolarizzando le uccisioni furtive, osservate sempre alle spalle del protagonista.
Cos’hanno in comune il Doomguy e Masterchief? Molto più di quanto si possa immaginare. Oltre all’aspetto fisico relativamente assimilabile, l’idea alla base delle serie Doom e Halo è molto simile: interpretare un protagonista Übermensch in grado di far fronte a orde di nemici in mondi alieni e ostili, dove la sopravvivenza va guadagnata un’uccisione alla volta. Di Doom e delle sue mod ne abbiamo parlato ampiamente qui.
Nel 2001, Bungie Studios lancia su Xbox, la nuova console appena lanciata da Microsoft, Halo: Combat Evolved, e dopo le prime ore di gioco appare chiaro fin da subito che si è di fronte a un nuovo spartiacque nel genere. La vera rivoluzione, però, oltre che nell’affascinante ambientazione, sta tutta nel gameplay: l’utilizzo di due armi equipaggiate in contemporanea e la possibilità di utilizzare dei veicoli all’interno della mappa. Proprio questi due fattori aggiungono delle variabili importanti, in grado di rivoluzionare le dinamiche che, nel frattempo (con i vari Quake e Wolfenstein) avevano raggiunto una situazione di stallo che sembrava non sbloccatile.
Che sia in un futuro lontano o nel passato della civiltà umana, il poter gestire intere nazioni e i relativi eserciti è sempre molto affascinante. Siamo nel 1997 e Ensemble Studios ha sviluppato il primo capitolo di Age of Empires, gioco di strategia in tempo reale che permette di esplorare quattro età antiche costruendo imperi e dominando il mondo intero facendo sviluppare una specifica civiltà storica, con relativi stili visivi e peculiarità. Solo un anno dopo Blizzard Entertainment propone sul mercato StarCraft, rivoluzionando le fondamenta gettate da Age of Empires, permettendo al giocatore di utilizzare civiltà molto diverse tra loro (per aspetto e sviluppo), conquistando il cuore di milioni di giocatori in tutto il mondo grazie alla sua componente multiplayer (accessibile a più persone anche con una sola copia del gioco).
L’aspetto fondamentale di entrambi i titoli è il posizionamento strategico a inizio partita, legato all’accaparramento delle risorse e la gestione ottimizzata delle stesse. Sulla stessa scia, in epoca moderna sono stati sviluppati i celebri MOBA, che portano allo sfruttamento estremo della tecnologia multiplayer nelle arene online, soprattutto nei casi più riusciti e diventati fenomeno di costume: League of Legends, DOTA 2 e tanti altri, fino all’odierna saturazione del genere.
Sul finire degli anni Ottanta, esordisce su Amiga 500 un gioco di simulazione che getterà le basi per un genere ancora agli albori: Sim City, il simulatore di città. Nonostante la scarsa profondità degli aspetti “gestibili” dovuta in particolare ai limiti tecnologici del periodo, è già possibile parlare di genere gestionale in accezione moderna – complessa e multisfaccettata. L’esperienza ludica del prodotto realizzato da Maxis risulta rivoluzionaria e appagante, e quando nel 1994 vive a sua consacrazione con SimCity 2000 nessuno sembra stupirsi eccessivamente della cosa. Parallelamente, nel 1991 il designer ludico Sid Meier’s tira fuori dal cilindro un nuovo gioco di strategia, Civilization, approfondendo il novello genere gestionale e declinandolo poi in versione “futuribile” con Alpha Centauri e fantasy con Master of Magic, prendendo una strada diversa ma molto interessante rispetto agli altri gestionali.
In Civilization, la costruzione del proprio impero si basa su innumerevoli fattori da tenere in considerazione: posizionamento strategico, risorse, sviluppo e rapporto con le nazioni confinanti, portando ogni mappa (dunque, ogni partita) a risultare diversa dalle altre. Pur con le dovute differenze, i due franchise sembrano procedere comunque su binari paralleli: ricerca, utilizzo di strumenti diversificati e gestione di aspetti complessi diventano i fattori principali di entrambe le serie, consentendo loro di restare fresche e competitive sul mercato anche negli anni a seguire, rispetto ai tanti cloni che loro stesse hanno involontariamente generato. Tutt’oggi, la longevità e l’unicità di ogni mappa rendono ogni partita unica, mentre tanti cloni nati nel corso degli anni provano a declinare lo stesso sistema di successo a contesti totalmente diversi (uno su tutti, il folle ospedale di Theme Ospital).
Il genere horror, a prescindere dal medium, ha delle caratteristiche fondamentali imprescindibili: atmosfera, coinvolgimento e credibilità. Lo sa bene Capcom (e in partiolare lo sanno Shinji Mikami e Tokuro Fujiwara – i creatori di Resident Evil, anzi: Biohazard), e altrettanto bene lo sa la Konami, produttrice di Silent Hill. A partire dal 1996 (Resident Evil), e dal 1999 (Silent Hill), le due serie hanno plasmato il modo di sognare l’orrore da parte dei videogiocatori di tutto il mondo.
Resident Evil racconta un orrore che pesca a piene mani dalle atmosfere di George Romero, puntando molto sul fattore shock della componente visiva, mentre Silent Hill offre una paura più figlia dell’atmosfera che dei jumpscare o del gore, con una colonna sonora quasi “sbagliata” a un primo ascolto, con la sua incredibile complessità compositiva. Proprio grazie alle loro differenze, i due titoli hanno generato due diverse scuole di pensiero nella creazione dei titoli ascrivibili comunque allo stesso genere, rappresentando tutt’oggi delle eccellenze nella categoria, generando un nutrito gruppo di seguaci e cloni come il capolavoro The Last of Us e tanti altri.
I due videogiochi targati rispettivamente Nintendo e Konami hanno rappresentato un punto di svolta non solo per i rispettivi franchise, ma nel design videoludico dei giochi action-adventure in generale, andando poi a fondersi in un unico genere, oggi popolarissimo soprattutto grazie a titoli indie diventati di culto: Hollow Knight, Axiom Verge, Salt & Sanctuary e altri. La struttura non lineare di entrambi ha portato gli autori a esplorare da un lato la fantascienza e dall’altro l’horror, proponendo in ogni caso casi delle mappe interconnesse, da attraversare più volte per procedere o completare il gioco, nei panni di un personaggio che vede le proprie caratteristiche migliorare nel corso del gioco.
Questa struttura ha generato una curva d’apprendimento piuttosto complessa, con delle sfide spesso più a misura dei giocatori più esperti rispetto ai neofiti, conferendo all’intero genere per molto tempo la fama di “ostico” nei confronti di chi si avvicina per la prima volta a questa tipologia di videogioco. Prima in 2D, poi in 3D, il genere Metroidvania ha vissuto un’evoluzione incredibile a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta.
Impossibile non citare in questa selezione senza il genere open world, che ha generato un nutrito numero di titoli dall’incalcolabile numero di ore necessari a completarli. Seppur toccato in parte con altri nomi presenti in questo articolo (magari non con i primi esemplari di alcune serie, ma sicuramente con i prodotti più recenti delle stesse), sono stati due i momenti rivoluzionari per il genere: il passaggio da 2D a 3D per la serie Grand Theft Auto e lo sviluppo di Morrowind, terzo capitolo di The Elden Scrolls. Nel caso di GTA, agli albori non si può parlare di open world, ma a partire anche qui dal terzo capitolo della serie, le cose cambiano. Con l’avvento della terza dimensione, il mondo di gioco non aumenta unicamente in altezza, ma anche nelle sue proporzioni, possibilità e complessità nel contesto dello sviluppo orizzontale.
I giochi open-world sono un clamoroso salto avanti, ma non smettono di essere story driven, permettendo al giocatore di scegliere in ogni momento se seguire la trama principale (solitamente completabile in poche ore, se si bada unicamente a essa), oppure divagare con le innumerevoli missioni secondarie, migliorando le statistiche (o le disponibilità economiche) del proprio personaggio prima di passare a missioni più impegnative. Un bellissimo volume del fotografo Mimmo Jodice si intitola Perdersi a guardare, ed è proprio questa frase che riassume l’esperienza di titoli open-world relativamente recenti come Red Dead Redempion II e Horizon: Forbidden West (solo per fare un paio di nomi), dove si trascorrerebbero intere ore solo a osservare il paesaggio che cambia nel corso della giornata, dimenticando di essere all’interno di un videogioco.
Oltre a essere parte integrante di alcuni tra i diversi titoli già citati in precedenza (in particolare per strategici e gli open world), la modalità multigiocatore/online rappresenta una categoria a sé. L’arrivo della connessione a banda larga in tutte le case ha portato a una grande rivoluzione nel mondo dei videogame: l’esperienza ludica torna a essere condivisa, non come nel contesto della sala giochi, ma in un modo nuovo, inedito e tutto da scoprire. Nel 1997, Origin System (poi Microsoft) propone Ultima Online, dove i giocatori agiscono tramite i loro avatar nel regno fantasy di Sosaria. Questo gioco è universalmente riconosciuto come uno degli antesignani del genere MMORPG (forse, il più celebre e importante), conferendo ai giocatori non solo la possibilità di gestire con una personalizzazione totale i propri personaggi, ma di vivere delle avventure condivise con altre decine di migliaia di utenti provenienti da tutto il mondo.
La componente interpretativa, prerogativa del gioco di ruolo, è molto importante per garantire una totale immersione nel contesto. Negli anni, tanti prodotti hanno provato a imporsi in questa categoria, andando oltre il genere fantasy e provando a catturare un pubblico maggiormente generalista. Per un po’, Second Life (lanciato nel 2003 da Linden Lab) ha tenuto il banco assieme ad Habbo Hotel, ma nel frattempo è sorto un nuovo gioco, ancora una volta fantasy, che per molti ha generato quella che oggi è considerabile una vera e propria dipendenza: World of Warcraft. Con questo titolo Blizzard, il mondo del gaming online cambia definitivamente e drasticamente, e dopo quasi vent’anni continua a essere un titolo fondamentale nel panorama mondiale. WoW ha vantato nel 2010 la bellezza di 12 milioni di abbonati, numeri incredibili, soprattutto per l’epoca, e tutt’oggi continua ad averne circa la metà.
Se è vero che per analizzare un determinato periodo sia necessario attendere la cosiddetta distanza storica per osservare in modo più oggettivo possibile gli eventi accaduti, chiudere questa selezione senza almeno nominare i videogiochi per dispositivi mobili (telefoni cellulari e tablet) rappresenterebbe una grave mancanza. Quindi, visto che è letteralmente impossibile analizzare dei fenomeni mentre li si vive, possiamo guardare al (recentissimo) passato per trovare due esempi che hanno a loro moro rivoluzionato il concetto di videogioco, mettendolo nelle tasche di chiunque, molto più di quanto fece a suo tempo il Game Boy.
C’è stato un periodo in cui tutti, ovunque, giocavano a Candy Crush. Grandi, piccini, casual gamer e professionisti sono stati catturati da questo semplice puzzle in ogni angolo del globo, al punto tale che, nel 2013, quasi cinquanta milioni di utenti lo hanno scaricato o comunque giocato via browser (tramite Facebook). Sicuramente, il successo di questo titolo va cercato in tre fattori: una UI di gioco davvero accattivante, soprattutto per l’epoca, la sua capacità di monopolizzare l’attenzione degli utenti per ore intere con livelli inverosimilmente ripetitivi e l’essere totalmente gratuito. Inutile dire che, negli anni, è stato imitato con più o meno successo da software house diverse dalla King, ma senza mai eguagliare tale successo.
Infine, chiudiamo questa selezione con un gioco che ha condensato nel suo concept diversi fattori che lo hanno reso un successo planetario: un franchise molto forte, l’effetto nostalgia, la realtà aumentata e il fattore “social” – Pokémon GO. Ampiamente giocato al momento della sua uscita, nel 2016, in quel periodo questo prodotto Niantic su licenza Nintendo ha monopolizzato le giornate di tutti gli utenti tra i venticinque e i trentacinque anni, portandoli a uscire di casa e percorrere diversi chilometri a piedi per catturare i loro Pokémon preferiti. Facendo incetta di premi e continuando ad arricchire la propria esperienza di gioco tutt’oggi, a sei anni di distanza non solo continua a fidelizzare nuovi utenti, ma rappresenta uno standard importante nei videogiochi a realtà aumentata preso come riferimento da molti altri prodotti su licenza.