È un oggetto se vogliamo marginale, il portaombrelli, di cui facciamo facilmente a meno quando non è disponibile, o che releghiamo nel dimenticatoio quando la bella stagione ci mette al riparo dall’incombenza della pioggia.
Eppure, questo contenitore di taglia modesta non si prende solo carico di un oggetto, l’ombrello, tra i più antichi e ricchi di significato della storia dell’uomo – un simbolo delle élite, un oggetto sacro per molte civilizzazioni, un elemento ricorrente nell’opera di tanti artisti, allo stesso tempo qualcosa di democratico e realmente “per tutti” – ma si presta con piacere al continuo esercizio di reinvenzione esercitato dai designer, che continuano a cambiargli aspetto seguendo l’evoluzione di materiali, gusti e tecnologie. Perché se è sotto forma di legno curvato che il portaombrelli ha cominciato a diventare un oggetto in serie, è con l’avvento della plastica che si è prestato ad un’invasione della casa e dell’ufficio, assecondando l’uso di registri più compassati per il settore contract, o richiamando con esplicite forme pop un mondo fantastico e votato all’umorismo.
Il suo rinnovamento non passa solo dalle maglie del gusto, ma intercetta anche astute innovazioni che potremmo definire linguistiche. Per sua natura un contenitore, ci diverte quando rinuncia a presentarsi come forma accogliente, regalandoci l’immagine di un ombrello sospeso nel vuoto. O ancora, ci stupisce quando non riesce a liberarsi dall’ossessione mimica dell’oggetto che deve contenere, riproponendone la silhouette o confondendosi volutamente in un gioco schermato di manici, aste e semisfere. Perché sì, forse più di altri, quest’oggetto schivo ha saputo rinnovarsi negli ultimi anni in maniera un po’ più temeraria, senza avere paura di citazioni o prestiti da altre tipologie o funzioni. Testimoniando, dopo anni di forme geometriche pure, una inclinazione al sorriso che, pur rimanendo discreta, sembra essergli diventata innata.