Nonostante le iniziali accuse di semplificazionismo liguistico, destino abbastanza comune per le novità, è uno scopo diametralmente opposto quello che ha portato il 19 settembre 1982 Scott Fahlman della Carnegie Mellon University a mandare un messaggio inconsapevolmente epocale sul Bulletin Board System (Bbs, un forum dei primordi) che riuniva alcuni gruppi di ricerca sulla Rete di allora, Arpanet:
19-Sep-82 11:44 Scott E Fahlman :-)
From: Scott E Fahlman <Fahlman at Cmu-20c>
I propose that the following character sequence for joke markers:
:-)
Read it sideways. Actually, it is probably more economical to mark
things that are NOT jokes, given current trends. For this, use
:-(
Come ha poi raccontato lui stesso in diverse interviste, Fahlman, stanco di quei colleghi che prendevano sul serio messaggi scherzosi o proposte volutamente assurde, proponeva di inserire un’integrazione alle informazioni già contenute in un messaggio di testo.
Siamo di fronte dunque a una risposta a esigenze evolutive della lingua, dovute all'evoluzione dei mezzi, un processo di sense-making. Se Iosep Ortega i Gasset sosteneva che l’uomo è l’unico essere vivente capace di abitare quasi ovunque, perché ovunque si trova a dover creare il suo habitat, attribuendo significati a ciò che lo circonda, è un po’ questa l’operazione che si faceva con gli emoticon, e che si continua a fare: abitare con elementi di senso uno spazio di comunicazione nuovo che si è venuto a creare, e che ancora è temporaneamente disabitato.
Questi elementi visuali non arrivano nel nostro linguaggio per modificarlo top-down: piuttosto, rispondono a una sua esigenza di modifica. È in quest'ottica che si può leggere il processo di distillazione degli emoji, che si collocano alla confluenza degli anni emoticon e della Smiley Face — lei sì con un passato animato, dal primo segno tracciato da Harvey Ball nel 1963, a quello con cui Franklin Loufrani contrassegnava le notizie positive su France Soir, alle estetiche rave e grunge, a utenti eccellenti come i Talking Heads e John Galliano.
Formalizzati per la prima volta da Shigetaka Kurita nel 1999 per DoCoMo, il progetto di mobile internet di NTT, gli emoji entrano nella sfera istituzionale delle comunicazioni e della lingua molto rapidamente. Il consorzio Unicode, di solito impegnato in codifiche di tipo molto più tecnico, si è presto trovato a gestire le release annuali di quella che di fatto è la nuova componente visuale dei nostri alfabeti; a validare cioè le puntate annuali di quello che è a tutti gli effetti un dibattito sulla lingua.
In capo a un paio di decenni gli emoji, quei dispositivi che alcuni temevano avrebbero sostituito le parole, e che per missione avevano l'esplicitazione dei sentimenti, sono passati ad essere descrizione di chi siamo e di come viviamo; e, come tali, sono stati soggetti da una parte a sovrainterpretazione (ma non servivano a fugare gli equivoci?), dall'altra alle mode, ma anche a un dibattito costante e socialmente radicato.
L'attestazione di entusiasmo di Damien Hirst per "Comedian", la nota banana esposta da Maurizio Cattelan ad Art Basel, narrata parzialmente in emoji.
Certo, le faccine sorridenti e ammiccanti sono passate dallo specificare il tono di un messaggio all'ingenerare equivoci di aggressività passiva. Certo, la faccina che ride ha celebrato i funerali del LOL — come alcune ricerche già sottolineavano anni fa — nonché del primigenio emoticon sghignazzante XD, ma generazionalmente anche lei è stata sepolta da un ritorno alle espressioni in lettere come ahahah (prima che si annunciasse un suo ritorno).
La parte che più costantemente si evolve a livello semiotico è però quella non-emotiva, quella descrittiva di una attualità, quella dove Unicode, anno dopo anno, rimuove e ridefinisce elementi, e ne inserisce di nuovi. Spariscono su richiesta collettiva le pistole, e progetti come hijabemoji.org arrivano a vedere inserite nelle tastiere del pianeta la figura femminile velata.
Il dibattito che va a installarsi sul supporto visuale delle emoticon/emoji è dunque quello che si posa generalmente sulla lingua, in tutta la complessità delle questioni di genere, etnia, religione, parità di diritti nell'accesso e nella rappresentazione che stanno contribuendo a plasmare la lingua di questi anni. Non per niente queste scritture sono oggetto di sperimentazioni e di ricerche interdisciplinari nelle lingue di ogni paese. In Italia, ad esempio il progetto Scritture Brevi ha tra le altre cose esplorato la possibilità di impiegare emoji come unico carattere con cui sviluppare interi testi, fino a riscrivere opere letterarie; ma anche Oneohtrix Point Never, alias del musicista Daniel Lopatin, aveva già potuto raccontare anni fa una vita nelle sue sproporzioni di intensità coi 4 minuti e 17 di emoji di Boring Angel.
Le immagini vanno a fare il lavoro degli alfabeti, e laddove si era temuta riduzione, essenzialismo, nemmeno più le immagini in realtà arrivano a dare risposte univoche a quei dubbi interpretativi che nell'era pre-digitale si posavano sulla lingua scritta (“…ma cosa vorrà significare?”). In un periodo dove il machine-based learning ha un impiego sempre più corrente, tanto da far sognare scritture di testi completamente generati da macchine senza alcuna iniziativa umana (la “scrittura non creativa” che Kenneth Goldsmith prefigura nel suo CTRL+C CTRL+V), l'immagine, più che sostituire il testo, lo sta andando ad integrare, tornando ad una dimensione di strumento per l'espressione di posizioni, concetti e articolazioni che continuano a provenire dalla parola. Dopo circa quattro decadi di emoticon, si può affermare che più che ad una essenzializzazione o sostituzione della lingua, si è arrivati ad una sua espansione, evolutiva, ancora tutta in divenire, orientata ad abitare un mondo percettibile che ormai ha sempre più la forma di un mondo di interfacce.
Immagine di apertura: courtesy Apple