Al posto di “buongiorno” è obbligatorio usare: “Sotto il suo occhio!” (“Under his eye!”). L’avrete senz’altro riconosciuta, è la formula di saluto tipica della serie TV “Il racconto dell’ancella”. E finché si trattava di una finzione poco male, ma di essere sottomessi a un regime teocratico, totalitario e d’ispirazione biblica nessuno ne ha una grandissima voglia. E invece, con la meraviglia per cui improvvisamente ci si rende conto che tutti indossano lo stesso capo, leggono lo stesso libro, possiedono la stessa lampada, ecco ovunque una pletora di oggetti carichi di occhi inquisitori. Naturale, direbbe qualcuno, con questo governo siamo passati dalla distopia alla realtà. Ma senza per questo essere più tranquilli di prima, occorre dire che l’affastellamento è di molto precedente al suo insediamento. E più che minaccioso sembra la rinascita di un marchio “registrato” dal Surrealismo, che ne fece grande abuso. Da quello fatto a fette nel Cane andaluso di Buñuel e Dalí agli occhi-spilla di Elsa Schiaparelli, fino all’inevitabile rischio di passare da investigatore privato per eccesso di fidelizzazione stilistica. Successe nel film Donne di George Cukor, quando la camicetta tempestata di occhi di Rosalind Russell suscitò un paragone difficile da contestare: “Ti sei per caso travestita da agente segreto?”.
Oggi si rischia lo stesso? No, perché non si è così pedissequi nel seguire le orme di quel movimento artistico. Tuttavia, chissà se il fermacarte-occhio frutto della collaborazione tra L’Objet e Lito ha qualche debito con Le Témoin di Man Ray, l’occhio a misura d’uomo che all’occorrenza, quando rovesciato, diventa divanetto. Chissà – anche – cosa voleva dire mettersi in casa un pezzo simile? Decidere cioè di essere sul serio “under his eye”? Se Cassina, che un po’ di anni fa ha acquistato il marchio Simon fondato da Dino Gavina, decidesse di rimetterlo in produzione, forse lo sapremo. Per ora diciamo che il suo ruolo enigmatico è stato sostituito da interventi pubblici. Gli occhi al neon di colore diverso disegnati da Patrick Tuttofuoco per le lunette del Ristorante Cracco raccontano del rapporto di lavoro, e vita, dello chef con la sua compagna, Rosa; ma tanto per ribadire la profondità simbolica dell’occhio, l’interpretazione dei passanti potrebbe essere anche quella di un omaggio glam rock a David Bowie. Vien da pensare: ma se gli oculisti applicassero lo stesso design alle loro insegne, non avremmo un paesaggio urbano più interessante? Ma questi ultimi mesi passati alle prese con l’autorizzazione sulla protezione dei dati personali, il famigerato GDPR, non credo indurrà a una sostituzione delle targhe in chiave Pop. Già troppi occhi impiccioni in circolazione.
Un esempio? La mela-occhio al cui interno Studio Job ha messo una telecamera a circuito chiuso. Che rimane il sospetto dietro ogni loro rappresentazione, fosse pure quella stampata sui cuscini Ikea disegnati di recente dalla stylist Bea Åkerlund. Il problema è che non si vuole correre il rischio di essere fraintesi. D’altronde, basta poco per sfociare nell’incubo, nell’inconscio, nel terzo occhio metà dipinto metà protesi dei modelli di Gucci all’ultima fashion week. E “Ce que je vois”, due occhi iperrealisti che l’artista francese Serena Carone fa sbucare da un muro; assieme a quelli di Hein Koh, che a Brooklyn li cuce al centro di fiori, alberi e frutta il più delle volte fissati nell’atto di piangere, sono lì a ricordarcelo. Eppure, se il tema degli occhi è così popolare è proprio per la sua sottile ambiguità, benigna e maligna allo stesso tempo. Forse il modo più facile per comunicare una parvenza di profondità. Sicché mentre Katy Perry sta girando il mondo con un palco a forma di occhio perché, come spiegò ai tempi dell’uscita dell’album Witness sulla cui copertina le spuntava un bulbo oculare dalla bocca: “È il modo in cui vedo, e come sono vostra testimone e voi di me”; le illustrazioni di grandi maestri tornano utili per tenere sempre sott’occhio matite e penne: è il caso dell’astuccio con il disegno vintage di due occhi di Alexander Girard, utilizzato per la penna Caran d’Ache 849 limited edition in collaborazione con Vitra. Perché due occhi non bastano mai. Ma limitando le distrazioni, due sono più che sufficienti.
Lo ha ribadito a fine 2017 la maschera di cartone che focalizza lo sguardo di Bruno Munari sulla copertina del suo Codice Ovvio, copia anastatica dell’Einaudi anni Settanta. E pochi mesi dopo, in quello che sarebbe bello credere un tributo al grande artista e designer, le maschere di Stephen Jones per Dior Couture primavera-estate 2018: che “imprigionano” gli occhi in una forma a farfalla che si allarga verso l’esterno con veli di tulle che nascondono la bocca, neutra. La parola non serve più, insomma. Conta il sintomatico mistero. E a tal punto che se il sole impone un paio di occhiali, ci sono i modelli con lenti protettive a forma di occhi. Per Yazbukey Linda Farrow li disegna completi anche di sopracciglia, come i disegni di Alexander Girard. Tra l’altro, questo delle sopracciglia (e ciglia) è un dettaglio che il design applicato al make up si guarda bene dal trascurare. Pena un deficit clamoroso di glamour. Un rischio che il pocket mirror da borsetta di Hay – e chi avrebbe immaginato una sua incursione nel mondo dell’imbellettamento – evita con un occhio tratteggiato a pennello, peluria compresa. Mentre le ciglia dello specchio Cyclops di Doiy sono degli spuntoni a raggiera un po’ minacciosi. Ma nella versione a tombolo, al secolo Stitchit, si possono dolcemente ricamare.